Il 2022 si apre, per l’ennesima volta, con una notizia vertiginosa proveniente dalla Cina. Ma non si tratta di un nuovo virus o di qualche altra variante terrificante di Covid. Per certi versi è qualcosa di più sconvolgente, o meglio, qualcosa che va a toccare in modo decisivo la storia dell’uomo. Qualcosa che pone delle questioni talmente complesse e profonde su “chi siamo” (come esseri umani) che può produrre solamente due reazioni opposte tra loro: il rifiuto secco e sdegnato o la riflessione non acritica ma costruttiva.

La notizia è la seguente: in Cina è stato realizzato un magistrato robot. Viene messo in soffitta o al museo delle cere il pubblico ministero in carne e ossa, fatto di ragione e coscienza e viene sostituito da una macchina. Per ora la scelta è ricaduta solamente sul magistrato d’accusa, chiamato a valutare quali processi portare a giudizio e quali archiviare; ma c’è da scommettere che, tra qualche tempo, anche il giudice umano (o meglio, per citare Nietzsche, “umano troppo umano”) sarà un ferrovecchio, magari un oggetto da collezione.

Quanto al terzo protagonista del processo, cioè l’avvocato, la questione non si pone. Napoleone, già il 18 brumaio, appena preso il potere, aveva ordinato di “tagliare la lingua agli avvocati”. In Cina “il penalista” è una figura dello Stato. Da noi, anche al giorno d’oggi, l’avvocato rischia spesso di divenire uno strumento per assicurare il rispetto (formale) del contraddittorio. Per questo è assai più interessante riflettere sull’idea che il “togato” sostituito sia il magistrato.

Provo a spendere alcune riflessioni, posta una premessa. La scelta asiatica del magistrato robot deve essere affrontata senza infingimenti: l’ideologia occidentale antropocentrica non può accettarla. “La giustizia deve restare umana” sostengono spesso i magistrati e ciò nell’idea neoilluminista che la coscienza umana assicuri la migliore performance possibile o comunque garantisca quella più affidabile e giusta. Bacone avrebbe classificato questo assunto come un idolo (nello specifico un “idolum theatri”) capace di predeterminare la cognizione e costringere il pensiero dentro percorsi definiti e chiusi. È necessario provare a smontarla, quanto meno per comprendere se è un pensiero affidabile o puramente dogmatico.

Da qualche anno mi interrogo e scrivo sul rapporto tra le nuove forme di tecnologia (su tutte l’intelligenza artificiale) e il fare giustizia. Ho affermato che, in un mondo in cui l’interazione tra uomo e macchina investe tutti i campi dell’agire (si pensi, tra i più rilevanti, alla medicina e alla chirurgia) la giustizia non può negare ogni dialogo con la tecnica e ciò perché farebbe perdere alla giurisdizione stessa il suo ruolo di regolatore e guida della società (le cui componenti non accetterebbero di essere regolamentate e giudicate da un sistema non al passo coi tempi).

Ma c’è molto di più. La scelta di affidare la giustizia all’intelligenza artificiale impone una domanda radicale: perché l’uomo, dotato di ragione e coscienza, dovrebbe essere sostituito da un insieme di chip in silicio? Per di più questi chip sono solamente in grado di simulare (probabilmente anche malamente) la ragione e la coscienza umana e non hanno nessuna autonomia decisionale, ma rispondono ad un algoritmo meccanico.

Quindi: perché sostituire un umano studioso e coscienzioso con un algoritmo meccanico? È esattamente quello che sostengono i “laudatores” della giurisdizione umana. Le scienze cognitive, eredi del più profondo pensiero filosofico, sono in grado di abbattere l’antropocentrismo illuminista che vuole l’essere umano (e dunque anche il magistrato) un individuo libero proprio perché dotato di coscienza e ragione.

In realtà la libertà umana è, assai probabilmente, molto più simile a quella descritta da Platone nel Fedro o dalla psicanalisi: un “daimon” che rappresenta “un altro” irriducibile alla propria coscienza e alla propria ragione. È libertà di essere ciò di cui non si ha coscienza e ragione (ma che rappresenta l’essenza più intima, nascosta e profonda del sé). La libertà umana, in poche parole (anche se molto provocatorie) non è quella di giudicare bene ma di giudicare “senza ragione” e “senza coscienza”. Abbattendo l’accoppiata di coscienza e ragione come alleati della libertà umana, si può realmente comprendere come agisce il cervello e dunque cos’è il diritto, che funzione ha e, di conseguenza, perché l’intelligenza artificiale può rappresentare una sfida con cui la giurisdizione deve confrontarsi.

Il diritto è un algoritmo “ante litteram”, volto proprio a togliere (la vera) libertà all’uomo. L’uomo cantato del “daimon”, dell’inconscio soggettivo e collettivo e del sistema neurale automatico deve essere guidato per mano, non può “liberamente” decidere di altri uomini. Il diritto non vuole che l’uomo-giudice sia libero, perché l’uomo libero si trasforma, inevitabilmente, in un individuo nietzschiano, cioè “umano troppo umano”. L’uomo libero compone opere sublimi, ma il fare giustizia non deve essere un’opera sublime, ardita, sconvolgente. Deve solamente essere giusta in base a regole astratte e artificiali che l’uomo ha costruito come sovrastruttura per rispondere ai propri bisogni contingenti.

Due anni fa stava arrivando dalla Cina la pandemia che ha sconvolto gli ultimi 24 mesi della nostra vita. Oggi è in arrivo un “virus” molto più devastante, che è in grado di cancellare un paio di millenni di costruzione culturale. È un “virus” capace di abbattere la nostra idea di uomo e il suo simbolo più antropocentrico: la modalità umana di giudicare gli umani. Buon 2022 dal futuro postpandemico.

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