L’incontro dura appena qualche minuto. Perché i convenevoli sono stati ridotti all’osso, le frasi di circostanza rimandate alla prossima occasione. Succede sempre così quando le cifre devono prendere il posto delle parole, quando il denaro smette di essere sterco del demonio per diventare concime dei sogni. Il ragazzo saluta con un sorriso e prende posto a un estremo del tavolo. Ha gli occhi azzurri e i capelli pettinati all’indietro. Qualcuno lo chiama “il computer”, per la sua capacità di calcolare la traiettoria perfetta. Altri preferiscono chiamarlo l’ebreo. Un nomignolo di cattivo gusto che nel 1975 serviva a sottolineare il suo attaccamento al denaro. Il ragazzo dice quello che tutti sanno già da un pezzo. È disposto a portare sul casco o sulla tuta un francobollo di stoffa di pochi centimetri con il logo dello sponsor. In cambio, però, chiede una cifra che si avvicina ai 20 milioni di lire. È una proposta tutto sommato ragionevole. Perché si quel ragazzo si chiama Niki Lauda. E ha appena vinto il campionato del mondo di Formula 1.

L’uomo seduto dall’altro lato del tavolo ascolta, annuisce, sospira. Poi gli dice che di toppa colorata, lui, non vuole neanche sentirne parlare. Nella sua testa c’è un progetto molto più grande. Qualcosa di rivoluzionario. Perché Domenico Barili è il responsabile dell’intera attività commerciale e pubblicitaria del gruppo Parmalat. Il suo primo grande successo era arrivato a marzo, in Val Gardena. Allora il logo della sua azienda era stato inquadrato per cinque ore consecutive dalle telecamere di tutto il mondo. Era presente ovunque. Sui cartelloni pubblicitari. Accanto al cancelletto di partenza. Sui pettorali di Thoeni e Stenmark che si stavano sfidando in uno slalom parallelo che passerà alla storia come uno dei duelli più esaltanti della storia dello sci.

Ora Barili si sporge in avanti. E detta le sue condizioni. Il prezzo non è un problema. Ma l’accordo deve essere accettato in toto. Perché la sponsorizzazione sarà globale. La scritta Parmalat deve essere immediatamente visibile. Sul petto e sul dorso della tuta. L’immagine del pilota deve essere utilizzata in televisione, nei “caroselli”. Ma anche nelle pubbliche relazioni. E per ogni altra iniziativa che possa portare pubblicità all’azienda. Niki Lauda prende la penna e firma. Sa di aver firmato quella che verrà definita la “Sponsorizzazione del secolo”. Ma non ha capito che la sua faccia non gli appartiene più. Ora è il volto della Parmalat.

L’identificazione è totale. Tanto che non si capisce più se l’austriaco stia correndo per la Ferrari o per la Parmalat. Ad agosto del 1976 l’azienda stampa centomila giacche a vento. Riproducono alla perfezione la tuta rossa di Lauda. Saranno commercializzate prima del Gran Premio di Monza e porteranno a un guadagno di 350 milioni di lire. Solo che succede qualcosa di imprevisto. Sul circuito del Nürburgring una macchina si gira, va a sbattere, si incendia, viene tamponata. Due volte. È la monoposto di Lauda. L’austriaco viene inghiottito dalle fiamme. Secondo qualcuno è morto. Per altri è solo una questione di tempo. Alle 21.10 viene annunciato che Lauda è in fin di vita. E nella testa di Barili inizia a prendere forma un pensiero cinico. “Centomila giacche – scrive – centomila copie della tuta del morto oppure centomila copie fedelissime di un cimelio bruciato nel rogo. Supervalorizzate oppure da buttare in nome dell’etica, della morale, della pietà o quanto meno del buon gusto”.

È un pensiero raccapricciante. Lauda rischia di diventare il Woobinda di Aldo Nove. Invece si trasforma nel Lazzaro di TS Eliot, quello che urla: “Vengo dal regno dei morti, Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto!”. La pelle di Niki è bruciata. Ma il suo talento è rimasto intatto. Quattro settimane più tardi si cala nell’abitacolo della sua Ferrari. C’è un GP d’Italia da portare a termine. Lauda sanguina e suda sotto il casco. E taglia il traguardo al quarto posto. La Parmalat ha sotto contratto un uomo che non ha solo infilato gli avversari, ma che ha addirittura sorpassato la morte. Quelle giacche a vento preparate da Barili vanno a ruba. Alla fine ne venderanno più di un milione. Tutte rosse. Tutte con la scritta Parmalat in bella vista. “Mai accaduto tanto: guadagnare con la pubblicità. Un paradosso“.

Nel 1977 Lauda vince il suo secondo Mondiale con la Ferrari. E poi firma con la Brabham. È un’operazione che fa discutere. E anche molto. La stampa chiama Lauda “traditore”. Anche perché sanno che il regista dell’operazione è la Parmalat, che sponsorizza anche la scuderia britannica. Il pilota si presenta in conferenza stampa con una giacca marrone e una polo bianca. Entrambi con il logo dell’azienda bene in vista. Prima che inizi a parlare un cronista della Radio Televisione Italiana lo chiama “Servo della pubblicità”. Niki lo guarda distaccato, poi risponde. “Sono felice di essere servo della pubblicità della Parmalat”.

Calisto Tanzi è sempre presente. Ma resta ancora sullo sfondo. Non ama parlare alla stampa. Anche perché non ce n’è bisogno. La sua immagine è quella del vincente, del rabdomante dell’affare giusto. Solo che il successo è fatto per essere ostentato. E ora tutto il mondo deve parlare della Parmalat. Perché vuol dire parlare di soprattutto di lui. La vera rivoluzione inizia nel 1990. Fino ad allora il Parma era stata una squadra impalpabile, un ectoplasma che si aggirava nelle serie minori del calcio italiano. Tanta Serie C, qualche apparizione in B. Un club che raccoglieva la sue stelle in fondo ai fossi, che non aveva mai conosciuto campioni che non fossero sul viale del tramonto.

Le cose avevano iniziato a cambiare con Arrigo Sacchi. Solo che Berlusconi si era messo in mezzo e se l’era portato a Milano. Un paio d’anni più tardi il patron Ernesto Ceresini chiama in panchina Nevio Scala. La squadra inizia a vincere. E a scalare posizioni. Poi nel febbraio del 1989 il presidente si spegne improvvisamente. Sembra un oscuro presagio. Il club sembra venire giù un pezzo dopo l’altro. Invece il Parma riprende a correre. E arriva per la prima volta in Serie A. A fine stagione Fulvio Ceresini, il figlio del presidente, telefona a Calisto Tanzi. Lui sponsorizza il club. Ed è l’uomo più adatto a prenderne in mano le redini. “Non l’avremmo dato a nessun altro”, dice. Ed è vero. È l’inizio di un’utopia abbacinante. Perché Tanzi riesce a trasformare la periferia in centro.

D’altra parte quella era sempre stata la sua fissazione: l’uomo partito da Collecchio doveva conquistare Parma. In quell’estate nasce l’illusione di un’azienda che si trasforma in squadra, che diventa sinonimo di una città per poi farsi sentimento collettivo. Quel club un tempo piccolo ora ha la stessa sete di successo della sua azienda. Lo si capisce subito. Il 15 luglio del 1990 il Parma annuncia l’acquisto di Cláudio Taffarel. È il portiere della nazionale brasiliana. E lo voleva anche il Real Madrid. Per portarlo a in Emilia la Parmalat ha sfruttato tutta la sua influenza e la sua penetrazione nel mercato sudamericano, dove è la principale azienda che produce latte e derivati. Anche i brasiliani della Maxicono, la squadra di pallavolo della città, si sono attaccati al telefono. Fino a quando non sono riusciti a convincerlo. Il portiere avrà un doppio ruolo. Calciatore e uomo immagine della Parmalat.

“Attenti però – dice Tanzi – se ci fosse servito un giocatore con altre esigenze in un altro Paese non avremo esitato. Siamo qui perché crediamo in questa squadre e negli impegni che abbiamo preso”. E ancora. “Si è fatto tutto e si farà tutto per costruire una squadra competitiva, degna del campionato italiano”. È una frase che diventa giuramento solenne. Il secondo acquisto della stagione è Tomas Brolin, uno che è sui taccuini dei club di mezza Europa. Sono colpi che generano clamore. Perché un club neopromosso e senza blasone riesce a competere con i più grandi, a sfilargli un obiettivo da sotto il naso. La narrazione del calcio ha un cortocircuito evidente. Si ostina a chiamare favole realtà che sono costruite su un mucchio di quattrini. E funziona così anche per il Parma.

Al primo anno in Serie A chiude al sesto posto. E vola in Coppa Uefa. È una dimensione ancora troppo grande per il club. I gialloblù vengono buttati fuori al primo turno dal CSKA Sofia. Ma a fine stagione vincono la Coppa Italia. Contro la Juventus. Negli spogliatoi Tanzi viene inondato di champagne. Poi il giorno dopo viene convocata una conferenza stampa al Tardini. Scala ci arriva in sella alla bicicletta della moglie. Una città di Provincia sembra vivere in quella frase di Flaiano che dice: “Sognatore è un uomo con i piedi ben piantati sulle nuvole”. Il presidente Pedraneschi prende posto in sala stampa e annuncia: “Tutti dicono che il Milan ucciderà anche il prossimo campionato. Beh, allora ci stiamo attrezzando per fare la corsa sul Milan. Certo che pensiamo in grande. Faremo solo qualche ritocco. I cinque stranieri? Sì, li abbiamo e ce li teniamo tutti. Del resto ce l’ha anche Berlusconi no?”.

Sembrano smargiassate. Invece sono pietre sulle quali Tanzi costruirà la sua chiesa. Nel 1993 il Parma batte l’Anversa e si aggiudica la Coppa delle Coppe. È passato dalla B al successo continentale in appena tre anni. Ed è solo l’inizio. Nel 1995 arriva anche la Coppa Uefa. Ancora contro la Juventus. Baggio segna all’andata e al ritorno. Solo che di nome non fa Roberto, ma Dino. “Una soddisfazione immensa per la città, che ora sarà sempre più conosciuta in Europa, e per noi”, dice capitan Minotti a fine partita. Nel 1996 Scala viene sostituito da Ancelotti. Zola diventa di troppo. Nel 4-4-2 del mister non c’è spazio per un trequartista. Il folletto viene spedito al Chelsea, dove diventerà Magic Box. Poco male. Il Parma arriva secondo. E vola in Champions League per la prima volta nella sua storia.

Quella squadra ha lo stesso dna del suo proprietario. Perché ha una vocazione internazionale. Lo scudetto resta un tabù. Perché il giardino di casa è il Vecchio Continente. Lo dimostra nel 1999. In panchina c’è Malesani. In campo gente come Buffon, Benarrivo, Apolloni, Crespo, Veron, Cannavaro, Thuram, Chiesa. A maggio incontrano l’Olympique Marsiglia nella finale di Coppa Uefa. Allo stadio Luzniki non c’è partita. Rete di Crespo. Rete di Vanoli. Rete di Chiesa. I gialloblù vincono 3-0. E si trasformano nell’ultima squadra italiana ad aver vinto una coppa che ha visto il suo fascino annacquarsi dopo la trasformazione in Europa League.

Per oltre un decennio il Parma è stato una delle squadre più iconiche del nostro calcio. Un club da 15mila abbonati che ha dettato legge su un continente intero, che ha portato il suo nome fino ai confini dell’Europa. Ma è stata soprattutto un’illusione. Il crac della Parmalat ha sbriciolato i sogni di gloria di una squadra e di una città intera. La provincia ha smesso di essere centro ed è ritornata periferia. Anche nello sport. Quella vetta che era stata quasi raggiunta è diventata improvvisamente lontana, appena visibile a occhio nudo. E dopo aver sfiorato il paradiso, non c’è niente di peggio che essere condannati nuovamente al purgatorio. Eppure non poteva essere altrimenti per un club la cui parabola è stata così perfettamente sovrapponibile a quella dell’azienda che la sosteneva e del patron che la finanziava. Un capitolo glorioso, discusso e discutibile che si è chiuso oggi, con la morte di Calisto Tanzi.

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