Nell’ininterrotta chanson de geste dedicata dai menestrelli di corte all’algido banchiere, il premier che il mondo intero ci invidia (probabilmente a propria insaputa), ci vengono narrate vicende tra l’epico e il leggendario che sfuggono alla comprensione di chi voglia mantenere un ascolto minimamente raziocinante.

L’Istat ci informa che nel corso dell’attuale pandemia da Covid già 73mila imprese hanno chiuso i battenti e 17mila sono in procinto di non riaprirli. Ogni giorno riceviamo i bollettini dal fronte occupazionale che ci segnalano la fuga ininterrotta di multinazionali che hanno deciso di riallocare le loro produzioni altrove. Buona ultima – per ora – la Caterpillar di Jesi, che ha appena licenziato i suoi 270 dipendenti e smantellato l’intera rete di partner produttivi. Dopo la Whirlpool di Napoli, la Sematic-Wittur di Osio, la Novem Car di Bagnatica… e via andare.

Inoltre, durante questo biennio di mortale glaciazione del nostro sistema produttivo sembra a dir poco problematico ipotizzare l’avvenuta trasformazione innovativa del nostro apparato produttivo, così come l’inversione di tendenza nella composizione merceologica dell’offerta con cui il sistema d’impresa italiano cerca di tutelare le quote di mercato del passato. Ossia la gamma di prodotti a bassa soglia tecnologica (e a elevata esposizione alla riproducibilità da parte dei paesi di nuova industrializzazione e a basso costo del lavoro) che caratterizzano il mix del nostro export: cibo, moda e arredamento; oltre alle produzioni metalmeccaniche di piccole serie che ci avevano assicurato un discreto posizionamento in qualità di sub-fornitori di economie industriali dominanti, in primis quella tedesca.

Difatti i consuntivi pre-Covid, relativi al nostro andamento, confermavano per l’ennesima volta che il sistema cresce a livelli infinitesimali: la metà della Germania e perfino un terzo della Spagna. Nel frattempo il Centro Studi di Confindustria si premurava di aggiungere al quadro deprimente un’ulteriore pennellata nella stessa tonalità; retrodatando il fenomeno con l’osservazione che la forbice tra l’Italia manifatturiera e il resto del mondo si sta allargando almeno dal 2000: un settore che si espanso complessivamente del 36,1%, mentre nel caso nostro si restringeva del 25,5%.

Dunque uno scenario – tra fughe di investimenti industriali e declino competitivo sistemico – che rende assolutamente problematico individuare ragioni che giustifichino la narrazione trionfalistica secondo la quale saremmo in presenza di un nuovo Miracolo Economico. Tradotto nella mirabolante cifra di un +6,5 per cento di crescita su base annua, che surclasserebbe qualunque altro Paese dell’Eurozona; in particolare la Magna Germania, che secondo le previsioni di casa nostra si attesterebbe a meno della metà dell’italico boom (2,7%).

I più spericolati cantori arrivano a ipotizzare per il nostro Paese, sinora dato per arrancante (e reduce dall’aver liquidato esperienze già accreditate per miracolistiche come i cluster distrettuali canonici; chiusi oppure emigrati in Croazia o a Timisoara), un futuro leaderistico quale locomotiva dell’intero sistema produttivo continentale.

Incapace di trovare una spiegazione di questa impennata del Pil, che pianta le proprie radici nel bel mezzo di una decrescita assolutamente infelice, ho cercato lumi rivolgendomi a chi svolge professionalmente lavoro di monitoraggio delle dinamiche economiche: un amico che mi ha spiegato l’arcano.

Il più 6 virgola italiano del 2021 risulta essere un semplice fenomeno detto “di rimbalzo” rispetto all’andamento dell’anno precedente, che segnava meno 9. Recupero solamente parziale (come nel caso ancora più clamoroso della Spagna, che era scesa dell’11 e ora rimbalza del 6) che non presuppone risanamenti organizzativi o salti di qualità tecnologici, ma solo aggiustamenti fisiologici: esecuzione di commesse già da tempo in ordine o ripristino di scorte.

Di certo nessuna evoluzione genetica del modello produttivo nazionale, che continua disperatamente (e pervicacemente) a inseguire strategie competitive concentrate sulla compressione dei costi produttivi. Come rivela il dato non molto lusinghiero per il nostro sistema industriale (e non solo) che vede gli stipendi medi a valori reali persino ridotti rispetto al 1990 di un 2,9% (mentre crescevano in tutto il resto d’Europa: dal +273,3% della Lituania al +33,7 della Germania e al +31,1 francese).

Segno di un equilibrio precario, la cui messa in discussione (leggi scioperi) terrorizza i nostri governanti, che di politica industriale non capiscono una cippa. Non solo il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che non è un industriale ma un commerciante, messo lì come speaker e mazziere dei padroncini. Ma pure il premier, riverito membro della casta bancaria, e il ministro delegato: l’Andrea Orlando, la cui unica attività professionale è stata quella del funzionario di partito. Gli eroi della nuova favola italiana.

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