Il Bebop è una navicella alla deriva nello spazio in un 2071 retrofuturistico. Il suo equipaggio è composto da annoiati quanto tormentati cacciatori di taglie, perennemente in attesa di un nuovo incarico che gli permetta di foraggiare un’esistenza pressoché vuota, vissuta in fuga più o meno consapevole dal proprio passato, con il quale si troveranno inevitabilmente a dover fare i conti.

Quando si impose sulla scena televisiva internazionale agli inizi del secolo in corso, Cowboy Bebop si presentò come il connubio perfetto tra tradizione e innovazione, nella narrativa animata giapponese. Da un lato la sapiente miscela di sci-fi, atmosfere western e noir lasciavano all’opera un ampio raggio di generi con cui giocare, dall’altro l’evidente desiderio di Shin’ichirō Watanabe (regista e autore dell’anime) di lasciare che questi precisi riferimenti culturali si contaminassero – proprio come avvenne in musica con l’immortale colonna sonora composta da Yoko Kanno e incisa dai Seatbelts – gli permise di mettere in scena un’opera a sé stante, con un manifesto poetico autonomo.

In ogni episodio i protagonisti rischiano poco o niente, fungono da sguardo, tutt’al più da ostacolo, su solitudini e sofferenze di personaggi terzi, che a torto o a ragione si trovano a difendere il proprio diritto di esistere con addosso il marchio dei fuorilegge. I destini tragici delle persone che incontrano non fanno che sfiorarli, finché nel crescendo dell’ultimo episodio i due piani non si confondono ed è lo spettatore a prendere il loro posto, assistendo alla resa dei conti finale di Spike Spiegel col passato da cui non riesce a liberarsi. Una volta compiuto l’arco narrativo del cacciatore di taglie, a chi osserva non rimane che farsi carico del proprio fardello personale, come suggerito dall’eloquente didascalia finale: you’re gonna carry that weight.

I personaggi di Cowboy Bebop vivono in un tempo sospeso, vuoto proprio come lo spazio infinito, condannati a tenere un occhio vivo sul presente e l’altro, malamente cicatrizzato, sul passato che li ossessiona (proprio come Spike), che idealizzano (come Jet Black) o del quale vanno in cerca (come Faye Valentine). Il risultato è la più sincopata riflessione sulla solitudine che la letteratura animata nipponica abbia mai prodotto.

Sfortunatamente, tutto ciò che di buono c’è nell’adattamento live action di Netflix non è altro che citazionismo formale del materiale originale. Molto lodevolmente, i protagonisti (John Cho, Mustafa Shakir e Daniella Pineda nei panni di Spike Spiegel, Jet Black e Faye Valentine) fanno il meglio che possono con ciò che gli viene affidato, ma il loro slancio performativo non è sufficiente a risparmiare allo spettatore la sensazione di sospensione in uno spazio sintetico, posticcio. Quello stesso spazio profondo, che nell’anime è reso vivace e dinamico solo dal jazz diegetico o dalle improvvise sparatorie, è infatti meno di una comparsa in un’egemonia di interni variopinti ma privi dei contraddittori anacronismi scenografici della serie animata.

Alla scrittura manca l’anima che rendeva Cowboy Bebop qualcosa di unico, ibrido come il suo genere: comprimari dal ruolo cruciale quali Julia e Vicious vengono stravolti in chiave noir con la scusa dell’approfondimento caratteriale, ma in questo modo sembrano più adatti a scenari quali L.A Confidential e Sin City che all’opera di Watanabe. È come se la trasposizione reclamasse la propria autonomia senza tener conto di quanto incerti, incolti, sono i mezzi con cui tenta di conseguirla. Grazie all’impegno del cast e alla perizia formale con cui viene costruito il ritmo della narrazione, si scampa alla frustrazione di assistere a uno spettacolo di cosplaying, ma rimane l’amaro in bocca per la sensazione di occasione persa.

D’altra parte, la trasposizione in carne e ossa di un anime di successo è qualcosa che non augureremmo neanche al nostro peggior nemico: è la solita storia, trita e ritrita, dei due medium che si esprimono analogamente ma in linguaggi distinti. Può riuscire a conciliarli un autore navigato e poliedrico come Takashi Miike con materiale totalmente off the wall come Yattaman, ma deve appunto trattarsi di un incontro armonioso tra bizzarrie consapevoli.

In questo caso, ottimi ingredienti volenterosamente accostati non trovano il giusto grado di fusione. Anzi, creano spesso un effetto straniante, ad esempio quando la magistrale colonna sonora di Yoko Kanno si fa malinconica e solenne e cala sulle scene di questo live action come generose scaglie di parmigiano Dop su una ricca portata da fast food: a qualcuno magari verrà la voglia di tornare, ma resterà il dubbio rispetto a cosa si è appena mangiato.

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