Botta e risposta sull’asse Francoforte – Berlino sul tema, surriscaldato, dell’inflazione. Questa mattina la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde ha affermato che “Un rialzo dei tassi d’interesse adesso non avrebbe effetto sullo shock inflazionistico che sta colpendo l’economia europea ma colpirebbe i redditi disponibili delle famiglie, ponendo un freno alla ripresa” aggiungendo che “le strozzature all’offerta globale non possono essere risolte dalla politica monetaria”. La presidente della Bce ha poi rimarcato come sia necessario esercitare “pazienza e persistenza” per l’obiettivo di un’inflazione sostenibile intorno al 2%. “L’attuale fiammata dei prezzi essendo destinata ad esaurirsi, non realizza ancora le condizioni desiderate per poter cambiare orientamento di politica monetaria”, ha concluso Lagarde.

Poco dopo il presidente della Bundesbank (la banca centrale tedesca) Jans Weidmann ha però affermato che “il persistere dell’inflazione richiederà un cambiamento di politica da parte della Bce che vada verso una normalizzazione”. “Data la notevole incertezza sulle prospettive di inflazione, la politica monetaria non dovrebbe impegnarsi troppo a lungo in una politica molto espansiva come quella attuale”, ha affermato Weidmann. L’attuale numero uno della Bundesbank lascerà la carica il prossimo dicembre, un addio anzitempo che secondo alcune ricostruzioni sarebbe motivato anche dai contrasti sulla linea adottata dalla Bce. Weidmann ha sottolineato che “Le banche centrali subiranno sempre più pressioni da parte dei governi e dei mercati per mantenere invariata la politica monetaria più a lungo di quanto suggerirebbe l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi”.

In ottobre l’inflazione della zona euro ha toccato il 4,1% mentre nella sola Germania il carovita ha raggiunto il 4,5%, segnando l’incremento più marcato degli ultimi 28 anni. Politiche monetarie espansive che aumentano la quantità di denaro in circolazione nel sistema economico, possono contribuire ad aumentare l’inflazione. Per contro le strette monetarie (riduzione acquisti titoli e/o rialzi dei tassi) raffreddano i prezzi ma frenano la crescita economica. A differenza della Federal Reserve, che pone sullo stesso piano gli obiettivi di contenere l’inflazione e promuovere la crescita, il mandato della Bce privilegia, almeno formalmente, il controllo sui prezzi. Una priorità fortemente voluta dalla Germania che ha voluto plasmare la struttura della Bce ispirandosi alla Bundesbank.

Anche gli Stati Uniti sono comunque alla prese con problemi analoghi, persino più accentuati visto che l’inflazione ha toccato in ottobre il 6,2%. In un intervento sul Washington Post l’economista ed ex consigliere della Casa Bianca Larry Summers ha invitato la Federal Reserve ad agire, altrimenti si creerebbero le condizioni socio economiche favorevoli per un ritorno alla presidenza Donald Trump. Di diverso avviso un altro prestigioso opinionista come il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman che dalle colonne del New York Times smorza gli allarmi sulla persistenza delle pressioni inflazionistiche. Le attese per le possibili mosse delle due principali banche centrali del mondo sono uno dei fattori che sta influenzando il cambio euro/dollaro. Negli ultimi 20 giorni la valuta statunitense ha guadagnato il 3%. In genere una valuta si rafforza nel momento in cui si attendono misure di politica monetaria restrittive. Si indebolisce in caso contrario.

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