“Nello scenario peggiore, senza un’azione urgente per ridurre le emissioni di CO2, le perdite di Pil dovute ai danni climatici nei paesi del G20 aumenteranno ogni anno del 4%“. E dopo il 2050 il danno potrebbe peggiorare, superando l’8% annuo nei prossimi ottant’anni. Lo afferma la Fondazione Cmcc (Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici) nel proprio G2O Climate Risk Atlas. Impacts, policy, economics, una raccolta che sintetizza le conoscenze scientifiche sugli impatti dei cambiamenti climatici attesi nei prossimi decenni nei Paesi più industrializzati del mondo: la causa del previsto crollo del Pil saranno le ondate di calore fino a dieci volte più lunghe nella media, con conseguenze anche sull’aumento della mortalità dovuta alle temperature estreme.

Gli Stati più esposti: in Canada a rischio il 13% del Pil – Il rapporto consiste in venti fogli informativi per Paese, con mappe e infografiche che forniscono un quadro completo sui rischi associati al riscaldamento globale e i suoi effetti sull’economia, l’ambiente e le società alla vigilia del G20 di Roma e della Cop26 di Glasgow. Senza una netta inversione di tendenza, tra gli stati che sarebbero più penalizzati a livello di Pil c’è il Canada con un calo di “oltre il 13% (133 miliardi di euro) entro il 2100“. In India, il calo della produzione di riso e grano potrebbe provocare perdite economiche fino a 81 miliardi di euro entro il 2050 e del 15% del reddito degli agricoltori nei prossimi 80 anni. Inoltre, il pescato potrebbe diminuire di un quinto in Indonesia, sradicando centinaia di migliaia di mezzi di sussistenza.

I danni da inondazioni, uragani e incendi boschivi – L’innalzamento del livello del mare danneggerà invece le infrastrutture costiere in 30 anni, con il Giappone destinato a perdere 404 miliardi di euro e il Sudafrica 815. In Australia i disastri naturali degli ultimi anni potrebbero ripetersi in proporzioni più ampie: incendi boschivi, inondazioni costiere e uragani potrebbero aumentare i costi assicurativi e ridurre il valore delle proprietà di 611 miliardi di dollari australiani. Le ondate di caldo saranno dieci volte più lunghe nella maggior parte degli Stati e nei casi estremi di Argentina, Brasile e Indonesia anche 60 volte. Come conseguenza, in Europa, le morti potrebbero aumentare da 2.700 all’anno a 90.000 ogni anno entro il 2100 su un percorso ad alte emissioni”.

L’appello: “Dalla crisi climatica un tracollo come Lehman Brothers” – Un allarme analogo era già stato lanciato in una lettera-appello al presidente della Cop26 Alok Sharma da 111 organizzazioni – tra cui anche il Wwf – e una sessantina tra economisti e accademici di varie discipline: la crisi climatica, scrivevano, ne potrebbe innescare una finanziaria di proporzioni simili a quella iniziata con il fallimento della banca Lehman Brothers. L’aumento dei disastri ambientali – sostenevano gli studiosi – non avrà infatti impatto solo sulla distruzione degli ecosistemi del pianeta, ma rischia di innalzare la quantità e le cifre dei premi assicurativi da pagare a chi subisce danni. Gli effetti potrebbero non essere sostenibili per il mondo del credito e della finanza, che sta però, allo stesso tempo, investe ogni anno nei combustibili fossili – responsabili dell’innalzamento delle temperature globali – circa 4mila miliardi di dollari, con un incremento di 750 miliardi solo nel 2020.

Rischi più alti per gli Stati più inquinanti – Ora il Risk Atlas del Cmcc conferma in pieno questa ricostruzione. Gli effetti del surriscaldamento globale andranno “dalla siccità, alle ondate di calore e all’innalzamento del livello del mare, alla diminuzione delle scorte di cibo e alle minacce al turismo“, spiega la professoressa Donatella Spano, ordinaria di Scienze dei sistemi forestali all’Università di Sassari, membro del Comitato strategico del Cmcc e coordinatrice del rapporto. Se si esclude il caso dell’Africa – che pur emettendo il 3% delle emissioni a livello globale, rischia di incorrere nelle conseguenze più severe della crisi climatica – molti dei Paesi più inquinanti rischiano di essere tra i più colpiti. Proprio Australia, Brasile, Argentina, Giappone, Arabia Saudita e altri Stati membri dell’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) non hanno linee guida chiare per raggiungere gli obiettivi di carbon neutrality che si sono prefissati nell’arco di venti o trent’anni e ritardano l’inizio di qualsiasi piano al 2030. Inoltre, stanno facendo pressioni per annacquare il prossimo rapporto sul clima dell’Ipcc (Intergovernamental panel on climate change), come rivelato da un’inchiesta di Unearthed, il team di giornalismo investigativo di Greenpeace Uk.

“Aumento di 2,7° C in questo secolo” – La Cina ha obiettivi più chiari: mira a ridurre al di sotto del 20% l’uso di combustibili fossili per il 2060. Sta continuando però a costruire nuove centrali a carbone e potenziando la produzione di quelle esistenti di circa 100 milioni di tonnellate l’anno. Nonostante Pechino sia tra i leader nell’eolico e nel solare, gli investimenti nelle energie rinnovabili sono solo un terzo rispetto a quelli per carbone e petrolio. Il leader Xi Jinping – insieme a Vladimir Putin e Jair Bolsonaro – presenzierà al G20 solo da remoto e sarà assente alla Cop26 di Glasgow. Gli effetti sono già visibili: secondo il Programma nazionale dell’Ambiente per l’Onu (Unep) – che ha pubblicato l’Emissions Gap Report 2021 – l’aumento della temperatura, in base ai contributi delle singole nazioni (Ndc), sarà di almeno 2,7°C in questo secolo. La stima però potrebbe essere al ribasso: al 30 settembre 2021, sono solo 120 i Paesi – responsabili di poco più della metà delle emissioni globali di gas serra – che hanno comunicato Ndc nuovi o aggiornati.

“Con il contenimento a 2° C effetto quasi nullo sul Pil” – “Come scienziati, sappiamo che solo un’azione rapida ne limiterà i gravi impatti”, avvertono gli estensori del G20 Climate Risk Atlas. “Confidiamo che nel processo di una transizione sostenibile, il cambiamento climatico sarà considerato il pilastro fondamentale dell’agenda politica“. Infatti, “limitare l’aumento della temperatura a 2 gradi centigradi potrebbe far scendere il costo per le economie mondiali ad appena lo 0,1% del suo Pil totale entro il 2050 e l’1,3% entro il 2100“. Secondo l’agenzia di rating Moody’s, però, la transizione alle energie rinnovabili richiederebbe prestiti e investimenti pari a circa 22mila miliardi di dollari. E distinguere i piani è abbastanza complesso: secondo un nuovo rapporto della coalizione Fossil FreePolitics, promosso anche da Greenpeace International, le stesse industrie di carbone e petrolio sono coinvolte, almeno a livello europeo, nello sviluppo di oltre l’80% delle energia a idrogeno – una delle tecnologie su cui gli Stati puntano di più per la riconversione ecologica – e dalla sola Commissione Europea potrebbero ricevere ancora 8,3 miliardi di euro del Next Generation Eu.

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