Settimane, mesi a lamentarsi per gli stadi chiusi, protestare contro il governo che nega spettatori e ricavi al calcio e dovrebbe addirittura risarcire i poveri patron mandati in bancarotta. Poi la capienza viene finalmente aumentata, ma i tifosi quasi non se ne accorgono. La prima giornata in Serie A con gli impianti al 75% è stata un flop clamoroso: nonostante il calendario prevedesse due big match come Juventus-Roma e Lazio-Inter, nessuna squadra ha raggiunto la nuova soglia fissata dalla normativa e non l’ha nemmeno avvicinata.

Che la riapertura immediata fosse la classica foglia di fico utilizzata dalla Serie A per nascondere i suoi veri problemi, lo si era capito dall’affluenza delle prime giornate, in cui nessuno aveva esaurito il suo 50%. I nuovi numeri sono ancora più impietosi dei precedenti. E la risposta più eloquente è arrivata proprio dai campi più attesi, da quelle partite che dovrebbero garantire grandi pienoni e grandi incassi. Quasi stupefacente, in negativo, lo Juventus Stadium, appena 20mila persone per la sfida a Mourinho, cioè esattamente la metà della capienza, come non fosse cambiato nulla. Non è andata meglio all’Olimpico, solo 31mila rispetto ai 53mila posti consentiti dalla legge. Ma la figuraccia riguarda davvero tutti, dalle grandi piazze alla provincia, da Nord a Sud. Hanno fatto leggermente meglio solo Spezia (6.500 su 8.500) e Cagliari (9.923 su 12.300), comunque senza sold out; neanche il Milan (40.000 su 57mila) si è salvato nonostante l’entusiasmo contagioso che circonda i rossoneri.

Le cause del tonfo possono essere diverse. Innanzitutto la tempistica, la novità: era la prima giornata al 75%, magari i tifosi neanche sapevano di avere la possibilità di tornare in massa allo stadio, e la disponibilità è stata aumentata in corsa. Solo all’ultimo sono stati messi in vendita i biglietti per l’ulteriore 25% ed evidentemente non c’è stata richiesta. Ma non può essere solo questo il problema. C’è il fattore dell’abitudine, gli effetti della pandemia: tanti tifosi che sono stati costretti ad abbandonare lo stadio e non è detto che ci torneranno, per il fastidio delle restrizioni (è obbligatorio il green pass), per paura degli assembramenti o per semplice pigrizia. E poi c’è il valore del prodotto, che i padroni del pallone pretendono sempre più alto, e invece è sempre più basso. Magari con le prossime giornate i numeri miglioreranno ma intanto il botteghino piange. La giornata passata smaschera la Serie A: dimostra quanto siano assurde le pretese di ristori, visto che i ricavi da stadio non hanno mai rappresentato una fetta rilevante per i bilanci disastrati dei club (la riprova anche nell’ultimo Report calcio della Figc), anche perché questi incassi sono solo presunti, visto che gli impianti restano mezzi vuoti anche ora che potrebbero riempirsi.

Più in generale, è una lezione per tutto il calcio italiano, sempre pronto a dare le colpe agli altri e mai capace di farsi un serio esame di coscienza. Chiedere di riaprire stadi che tanto non si riescono a riempire è un po’ come chiedere di sospendere tasse che non si riescono a pagare. Ed è quello che sta facendo il pallone, che nelle ultime settimane è tornato a bussare alla porta del governo per ottenere un nuovo rinvio dei contributi, come già successo un anno fa. E come già disposto di nascosto dalla Federcalcio, ma solo a fini interni di controllo, perché non è certo un provvedimento federale che può esentare i club da pagare il dovuto. La proposta era insostenibile e infatti almeno per il momento è stata rispedita al mittente, tra lo sgomento dei presidenti che si sentono oltraggiati. Ma invece di pretendere favori e scorciatoie, dovrebbero pensare a risanare i conti, contenere le spese, perché non sarà un rinvio di qualche mese a salvare il pallone dalla bancarotta. Altrimenti si ritroveranno le casse come gli stadi: vuoti, e non per colpa del Covid o del governo.

Twitter: @lVendemiale

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