Il problema esiste. L’ha evidenziato nel suo stile molto spiccio e tagliente sul Fatto Quotidiano di lunedì 20 settembre Selvaggia Lucarelli e si tratta del rischio che dopo il Conticidio ci tocchi assistere al Contesuicidio.

A dire il vero non esiste da oggi o dall’ultima performance televisiva di Conte a cui non ho assistito perché non c’ero e soprattutto perché ho una certa allergia al “Formigli style” e a quella che ritengo la sua greve faziosità (a mio avviso, ha toccato apici inarrivabili nei confronti di Virginia Raggi e dei rappresentanti del M5S, non del tutto omologati al Pd).

Come era fin troppo facile prevedere, “l’operazione calzino” ovvero rivoltare quello che era stato il movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio nel partito-di-Conte-alleato-naturale-del-Pd auspicata, propugnata, magnificata da troppi falsi amici del M5S sta producendo effetti collaterali indesiderabili. E’ quasi superfluo sottolineare quanto sarebbe controproducente snaturare e sbiadire oltremodo l’identità e la credibilità di un percorso politico straordinario, fino a vanificare le ragioni e le finalità della sua stesa esistenza. Tanto più che il contesto politico attuale è tutt’altro che emendato dai vizi e dalle anomalie della politica italiana che il M5S si è proposto da sempre di combattere. Lo sta tristemente confermando il fatto incredibile e sconcertante che nel dibattito pubblico trovi ancora spazio “la persecuzione giudiziaria” contro B.

E che un pregiudicato che continua bellamente a sottrarsi ai processi per corruzione di testimoni e ad aspirare al Colle dopo una condanna definitiva per frode fiscale riceva la solidarietà di una larga parte della politica, inclusa quella di Romano Prodi, un ex presidente del Consiglio rientrato nell’agone politico a supporto del Pd, indignato non per le pretese di B. ma contro una legittima e motivata richiesta dei magistrati bollata come “ennesima follia italiana”.

Molto di recente alla festa del Fatto Giuseppe Conte ha ribadito che il M5S a sua guida deve essere “radicale nei principi e moderato nei toni e ha rivendicato come meriti incontestabili del Movimento aver messo al centro dell’agenda politica il valore dell’etica pubblica, il contrasto dei privilegi, la riduzione del numero dei parlamentari per consentire agli elettori di valutare meglio l’operato degli eletti, temi condivisi da tanti cittadini ma altamente invisi ed avversati dalla compagine politica.

Sarebbe sufficiente che da leader del M5S si attenesse rigorosamente ai principi e al metodo che ha enunciato, ricordandosi di non essere più un presidente del Consiglio che deve governare in nome del popolo italiano ed essere il presidente di tutti ma deve in primo luogo rappresentare gli elettori spaesati, destabilizzati e/o demotivati del M5S. E se riuscisse a convincere anche solo una larga parte di coloro che nel 2018 hanno dato fiducia al M5S incasserebbe un grande risultato elettorale e garantirebbe all’Italia del dopo Draghi di non ritornare quella del ventennio berlusconiano, permanentemente berlusconizzata anche quando B. non è stato al governo.

La tendenza ad essere evasivo, sgusciante, circonvoluto, a lasciare aperta qualsiasi opzione, come è avvenuto riguardo al ponte sullo Stretto qualche tempo fa ad un Forum al Fatto o in altre occasioni, ad indulgere troppo spesso nello “stile Forlani” deriverà anche da un linguaggio di stampo giuridico-accademico e dalla difficoltà per inesperienza ad affrontare i talk ma non mi sembra che sia questo il vero punto.

Come diceva Gustave Flaubert, che cerco di citare approssimativamente a memoria, quando le idee sono chiare le parole fluiscono, anch’esse chiare. E nel caso di Conte il deficit di chiarezza, la sensazione di un discorso pubblico troppo ecumenico per voler piacere a tutti e non urtare nessuno e dunque troppo “inodore” ed “insapore” deriva in sostanza dal non sapere bene a chi rivolgersi per non aver troppo chiara la propria identità politica ed il proprio percorso. Identificare, come ha suggerito Peter Gomez sul Fatto del 21 settembre, 4 o 5 punti programmatici identitari, qualificanti e immediatamente comprensibili come è stato nel 2018 quando il M5S si è presentato con reddito di cittadinanza, leggi anticorruzione, taglio dei parlamentari sarebbe sicuramente un grande passo avanti.

Ma le condizioni odierne sono opposte rispetto ad allora: oggi il M5S è più o meno imbrigliato in un’alleanza con il Pd che è sempre dominato dalle correnti, dagli spin doctor, come Goffredo Bettini ed il redivivo Romano Prodi che indulgono più che mai verso B. e FI, condizionato da Matteo Renzi “sostenitore” alle suppletive a Siena di Letta (il quale ha ritenuto più producente presentarsi senza il simbolo del Pd).

Allora il M5S, in perfetta solitudine, ottenne la sua più grande e clamorosa vittoria ed è diventato prima forza nel paese ma ha dovuto governare in alleanze e situazioni che hanno generato la sua grave crisi.

Oggi Conte si trova ad essere leader di una forza ben più debole e disaggregata, a sostenere un governo da cui è nei fatti impossibilitato ad uscire e ad essere alleato di un Pd ancora in cerca di autore e sempre attratto dalle “sirene renzusconiane”.

Bisogna che Conte si renda conto che questa alleanza potrebbe diventare un cappio al collo per il M5S e che mantenga una sana distanza e differenziazione rispetto al Pd, magari diradando anche un po’ i conciliaboli con Bettini e facendo a meno delle benedizioni di Prodi, molto compiaciuto della “istituzionalizzazione” del M5S tanto da paragonarla da Lucia Annunziata a Mezz’ora in più a quella, a suo dire, subita dal B. “statista”. Nessuno chiede a Conte di lanciare dei vaffa ai suoi interlocutori o di aprire il Parlamento come una scatoletta, ma di mantenere degli elementi di differenziazione tematici e comportamentali nel M5s per non omologarlo ulteriormente, questo sì. E le parole chiare saranno conseguenti.

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