L’ultimo venerdì di ottobre, il 29, una mobilitazione contro il global warming partirà dagli Atenei italiani per coinvolgere tutti i cittadini su tre obiettivi concreti, in occasione dell’apertura, il successivo 1° novembre, di COP 26 a Glasgow.

1) La “linea del Piave” climatica sia il 2025, anno sul quale traguardare obiettivi e piani di governo impegnandoci ogni giorno per la loro realizzazione;

2) Attuare la raccomandazione Ue del “40%” di rinnovabili; cioè in Italia, almeno 28 GW di solare ed eolico entro quella data;

3) Un cambio immediato di rotta del gruppo dirigente Eni, affinché il 25% di riduzione di emissioni in atmosfera (CO2 E CH4) sia realizzato non oltre il 2025.

In queste ultime settimane, mentre l’accelerazione, e l’aggravarsi, della crisi climatica ancora non diventava priorità del discorso pubblico, è piombato come una mazzata il VI Rapporto dell’Ipcc ad ammonire ancora una volta che: “non c’è più tempo”. L’urgenza e il ripetersi degli appelli dell’Ipcc negli ultimi anni fa scolorire quelle previsioni che, ancora dieci anni fa, dipanavano con gradualità il dramma climatico nel corso di tutto il nostro secolo. L’urgenza ha invece individuato nel 2030 l’anno di riferimento, quel “tipping point” dal quale non si torna più indietro, anticipato di vent’anni, rispetto al precedente 2050, del rapporto 2014. In Italia, quindi, quella è la data con la quale devono misurarsi politiche economiche, industriali e ambientali per conseguire i loro obiettivi energia/clima e per dare forza alla svolta di ecologia integrale senza ulteriori rimandi.

Di conseguenza, la significativa consapevolezza politica Ue dell’accelerazione degli effetti del global warming ci deve stimolare a essere realisti e a proporre proprio il 2025 come anno sul quale misurare l’efficacia dei programmi e degli sforzi per realizzarli. Siamo invece vicini a una tornata elettorale che non sembra scuotere su obiettivi così cogenti i futuri amministratori. Assumere solo il 2030 sarebbe indulgere a ritardi, anche burocratici, in dissonante contrasto con l’angoscia dell’urgenza.

Nel nostro Paese, uno dei grandi enti energetici nazionali, l’Eni, che dovrebbe assumere un ruolo propulsivo, si prodiga invece per mantenere l’Italia nell’era dei fossili, come testimonia, tra l’altro, la sua insistenza sul progetto “Carbon Capture and Storage” (Ccs) al largo di Ravenna. Mario Draghi e il governo devono aver chiaro che, oltre a compromettere la salute dei cittadini con le emissioni inquinanti, si comprometterebbero gli obiettivi energia/clima del Piano nazionale di resilienza e recupero (Pnrr), nonché lo stesso futuro del maggior Ente partecipato dallo Stato.

È infatti inaccettabile che esso mantenga il grottesco obiettivo al 2030 del 25% di riduzione delle emissioni climalteranti, in fragoroso contrasto con il 55% richiesto a dicembre 2020 dal Consiglio d’Europa. Occorre ricordare che il 26 maggio scorso un tribunale olandese ha intimato alla Shell di portare al 45% entro il 2030 la riduzione delle sue emissioni. Se l’Eni non è in grado di conseguire da sola un obiettivo di riduzione decente, si attivi un’intesa anche con Enel, altra partecipata dallo Stato, per la decarbonizzazione dei siti Eni “hard to abate”, con la rinuncia a nuovi investimenti sul gas, come, grazie anche a una lotta popolare, sembra profilarsi già per Enel a Civitavecchia.

È un errore grave per un ente della dimensione e con la storia nazionale di Eni mantenere oggi il core business negli idrocarburi. Voglio richiamare infatti che:

1) nel corso del 2020 le maggiori compagnie Oil&Gas hanno distolto ben 87 miliardi di dollari da quel mercato;

2) la Iea – International Energy Agency, che raccoglie tutti i Paesi del mondo “avanzato” e che non è sospettabile di simpatie per le fonti energetiche rinnovabili, nel suo rapporto “Net Zero by 2050” afferma: “there are no new oil and gas fields approved for development in our pathway” (nel nostro percorso non è prevista l’approvazione di nessun nuovo campo di petrolio o di gas da sfruttare);

3) le principali compagnie europee Oil&Gas si sono date importanti obiettivi sulle rinnovabili al 2030: 100 GW per Total, 50 GW per BP, mentre il target dell’Eni è invece di soli 15 GW!

In questi giorni capita di leggere di politica industriale in un documento programmatico del ministero della Difesa che, con particolare enfasi, si riferisce all’industria degli armamenti, assurta a “base della sovranità tecnologica del Paese”. C’è da chiedersi allora perché mai nelle copiose pagine del Pnrr non ci siano cenni espliciti a politiche industriali: nessuna programmazione tangibile di una profonda riconversione ecologica, che, come ha ricordato Draghi in una sede internazionale, eviterebbe la catastrofe di 3°C di aumento a fine secolo. Più nello specifico, c’è una totale incertezza per la sostituzione del gas con le rinnovabili, quando invece per incrociatori, bombardieri e droni ci si appresta a “raccogliere la sfida della globalizzazione, dell’innovazione digitale e della transizione ecologica” (Sic! nel documento appena citato). Così, il ministro “effettivo” della transizione ecologica, in assenza di piani industriali, può permettersi di ricredersi il giorno successivo su quanto affermato a spanne il giorno prima (70 GW di rinnovabili, anziché la fusione nucleare a portata di mano…).

Oggi l’alterazione del clima è il punto centrale che deciderà del futuro stesso dell’umanità. Per evitarlo e avere cura del Pianeta necessita, oltre a una riduzione dei consumi, un piano industriale-logistico-manifatturiero per il rilancio delle energie rinnovabili, soprattutto eolico offshore e fotovoltaico, stabilizzando la rete nei momenti di discontinuità della produzione. E, nel contempo, un sostegno lucido e socialmente inclusivo alla riconversione industriale che compensi i perdenti della transizione. Una programmazione robusta che non è all’orizzonte, perché i tempi non corrispondono all’urgenza e la destinazione dei fondi del Next Generation Ue non hanno un indirizzo cogente, né fondato sulla partecipazione, il consenso dei cittadini e il diritto all’occupazione.

Al punto attuale i soldi europei rischiano di essere un incentivo al sistema immutato e resistente al vecchio delle imprese italiane per continuare a sfruttare un loro posizionamento sul mercato interno che non risolve ma peggiora l’emergenza climatica. E qui sta il paradosso: l’allarme di Draghi potrebbe passare sottotraccia, perché il ruolo che assumeranno le partecipate dallo Stato e dalle amministrazioni locali (Enel, Eni, A2A, Hera, Acea, Iren) dipenderà più dalla maggiore o minore lungimiranza dei loro Ad e dagli equilibri interni ai loro CdA, che non dagli indirizzi programmatori dello Stato, viste le contraddizioni presenti nel Governo e lo scarso conto in cui viene tenuta la democrazia.

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