Il sogno di Papa Francesco resta la Cina. Bergoglio ne ha parlato recentemente nell’intervista a radio Cope: “La questione della Cina non è facile, ma sono convinto che non si debba rinunciare al dialogo. Ti possono ingannare nel dialogo, puoi sbagliarti, ma il cammino è questo. La chiusura non è mai cammino. Ciò che si è ottenuto finora in Cina è stato almeno di dialogare. Qualche cosa concreta come la nomina di nuovi vescovi, pian piano. Ma sono anche passi e risultati che possono essere messi in discussione da un lato e dall’altro”.

Nel 2020, infatti, il Vaticano ha rinnovato per altri due anni l’accordo con la Cina per la nomina dei vescovi. Un’intesa esclusivamente pastorale che non ha aperto ancora al ripristino delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi e così all’eventuale viaggio del Papa a Pechino, tanto sognato da san Giovanni Paolo II prima e ora da Francesco.

La prima intesa era stata siglata nel 2018. “La Santa Sede, – precisò una nota vaticana all’epoca del rinnovo – ritenendo che l’avvio dell’applicazione del suddetto accordo, di fondamentale valore ecclesiale e pastorale, è stato positivo, grazie alla buona comunicazione e collaborazione tra le parti nella materia pattuita, è intenzionata a proseguire il dialogo aperto e costruttivo per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del popolo cinese”.

Nel momento in cui venne siglato l’accordo, la speranza del Vaticano era quella di ristabilire anche le relazioni diplomatiche in un tempo relativamente breve. L’ultimo nunzio apostolico in Cina, monsignor Antonio Riberi, fu espulso da Mao il 4 settembre 1951. “Da allora – come ha spiegato l’ex ambasciatore d’Italia a Pechino, Alberto Bradanini – il rappresentante del Papa risiede a Taipei. Nel 1971 Paolo VI aveva ridotto lo status diplomatico del nunzio a Taiwan a quello di incaricato d’affari, una scelta giustamente letta da Pechino come permanente disponibilità al compromesso da parte vaticana. E seppure l’abbandono di Taiwan venisse gestito senza difficoltà, la nomina dei vescovi resta per la Chiesa una questione più complessa”.

A chi, però, soprattutto all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, come il porporato Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong, ha sempre contestato l’intesa pastorale tra il Vaticano e la Cina, il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, ha ribattuto fermamente: “Grazie all’accordo, tutti i vescovi cinesi sono in comunione con il Papa. Non abbiamo più vescovi illegittimi”.

Per il porporato “se guardiamo all’accordo possiamo ritenerci contenti. Speriamo che possa esserci un funzionamento migliore e continuo dei termini dell’accordo. Poi ci sono anche tanti altri problemi che l’accordo non si proponeva di risolvere. Sottolineeremo molto questo: non pensate che l’accordo possa risolvere tutti i problemi che ci sono in Cina”.

Da parte sua, Francesco non ha mai nascosto il suo desiderio di visitare Pechino, sulla scia del confratello gesuita Matteo Ricci che fu a lungo missionario nel Paese: “Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro: domani! Eh, sì. Noi rispettiamo il popolo cinese; soltanto, la Chiesa chiede libertà per la sua missione, per il suo lavoro; nessun’altra condizione. Poi, non bisogna dimenticare quel documento fondamentale per il problema cinese che è stata la lettera inviata ai cinesi da Papa Benedetto XVI. Quella lettera oggi è attuale, ha attualità. Rileggerla fa bene. E sempre la Santa Sede è aperta ai contatti: sempre, perché ha una vera stima per il popolo cinese”.

Quella lunga lettera, scritta da Ratzinger nel 2007, aveva proprio lo scopo di riprendere il dialogo interrotto tra il Vaticano e la Cina. L’accordo voluto da Bergoglio si è posto sulla stessa scia. Piccoli passi avanti di una diplomazia molto lenta e che difficilmente porterà in tempi brevi a un’evoluzione dei rapporti tra i due Paesi. Anche per il fuoco amico, all’interno della Chiesa cattolica, che non guarda positivamente a un accordo diplomatico con la Cina.

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