Poche cose fanno bene alla democrazia come i lavori parlamentari fatti dall’inizio alla fine: purtroppo infatti spesso le cose vengono avviate e poi si arenano, pensiamo a proposte di legge che iniziano l’iter in un ramo del Parlamento e non lo concludono mai, oppure ottengono l’approvazione in un ramo ma si perdono nell’ altro. Pensiamo a quante leggi, definitivamente approvate e pubblicate in Gazzetta restano sostanzialmente lettera morta per mancanza dei decreti attuativi, dei regolamenti, delle risorse per funzionare davvero.

Tutte cose che fanno perdere di credibilità al Parlamento, ma più generalmente alla funzione regolatrice della legge, il che in una Repubblica fondata sull’uguaglianza di tutti davanti alla medesima legge come riflesso della riconosciuta uguale dignità di ogni essere umano, apre crepacci davvero molto pericolosi. Se non è la legge a garantire l’uguaglianza, cioè la tutela dei più deboli nei confronti delle pretese dei più forti (perché è a questa “uguaglianza” che pensarono i nostri Costituenti, accomunati per lo più da un verace antifascismo), allora non restano che la furbizia o l’assoggettamento volontario al “clan” migliore per sfangarla.

Invece giovedì 5 agosto la Commissione parlamentare antimafia presieduta dal senatore Nicola Morra, ha approvato all’unanimità il regolamento attuativo, funzionale a rendere operativo il codice di autoregolamentazione che venne licenziato, anch’esso all’unanimità, dalla precedente Commissione parlamentare antimafia nel 2014, presidente all’ora era l’onorevole Rosy Bindi.
Di cosa stiamo parlando?

Della necessità di garantire agli elettori che i partiti candidino persone che non abbiano sentenze di condanna, pur non definitive, relative a reati di mafia o contro la Pubblica amministrazione, che non siano rinviati a giudizio, che non siano sottoposti a misure di prevenzione personali o patrimoniali.
Stiamo parlando di soggetti che a norma di Legge potrebbero essere candidati perché per tutti loro vale la presunzione di innocenza fino a giudizio definitivo, e tuttavia soggetti che si preferisce non candidare, visto che non esiste soltanto ciò che la Legge proibisce, esiste anche ciò che l’etica o semplicemente la ragion politica dovrebbero impedire.

Ed ecco che i partiti (tutti!) nella passata Legislatura e poi di nuovo in questa hanno sottoscritto un “patto” che è appunto il Codice di autoregolamentazione, impegnandosi a non candidare quel tipo di soggetto ritenendone la candidatura moralmente ripugnante e politicamente inopportuna. I partiti sottoscrivendo questo “patto” hanno anche affidato alla Commissione parlamentare antimafia il compito di verificare che effettivamente il patto venga rispettato e di rendere pubblica la verifica fatta, onde informare l’opinione pubblica.

Ottenendo che cosa? Quello che si chiama effetto “dissuasivo” e preventivo: per evitare di fare brutta figura in campagna elettorale è ragionevole immaginare che i partiti si guardino bene dall’esporsi al rischio di farsi fischiare un fallo del genere dalla Commissione parlamentare antimafia.

Onore al merito quindi per il lavoro fatto da questa Commissione parlamentare antimafia che, approvando il regolamento attuativo, crea da ora e per il futuro i binari ordinati per attivare questa verifica. Un risultato per nulla scontato vista l’insofferenza da subito dimostrata da diversi esponenti di partiti differenti per questa innovazione, basti pensare che la Lega sta raccogliendo firme per abolire tout court la Legge “Severino”, altro che Codice di autoregolamentazione! Tutto questo dovrebbe spronare i dirigenti dei partiti a candidare persone per bene e dovrebbe facilitare gli elettori nell’ottenere informazioni chiare sui profili dei candidati presentati.

E tuttavia la difesa della democrazia da infiltrazioni elettorali virali non finisce qui, perché pendono almeno due spade affilate. Normalmente i tipi più pericolosi per la democrazia sono rigorosamente “lindi e profumati” e quindi nessun elettore è sollevato dalla fatica di capire di che pasta umana sia fatto il partito che si voglia sostenere. Il regolamento per funzionare al meglio ha bisogno di una triangolazione tra Commissione parlamentare antimafia, Procura nazionale antimafia ed antiterrorismo e Corti d’appello: servono tempi e risorse che oggi non ci sono.

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