Oggi la Chiesa ricorda Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein. La indica assieme a Brigida, Caterina da Siena, Benedetto, Cirillo e Metodio, compatrona d’Europa. Tre donne e tre uomini che, non certo per par condicio, vengono indicati come punti di riferimento perché l’Europa, oltre alle sue radici, ritrovi sempre la bussola per tamponare quella sorta di “emorragia di umanità” che da diversi anni sta sperimentando.

Non abbiamo bisogno solo di moneta unica! Semmai di scoprire anche nelle civiltà del passato il senso del vivere nel presente, per orientare anche il futuro. Volgendo uno sguardo attento alla storia del nostro Occidente scopriamo con stupore che esso non è semplice ideologia o una cultura tra le altre ma, come opportunamente scrive Marco Guzzi, è quel “movimento storico in cui tutte le altre culture e religioni vanno a rigenerarsi”. Sono convinto che nelle radici della nostra cultura vi sia una energia di rinnovamento universale. Una straordinaria ed inedita potenzialità di liberazione dalla pseudocultura paneconomicistica che tutto sembra inglobare nella sua perversa logica del consumo acritico.

Occorre una nuova capacità di pensiero, come quello che è nato nella mente e nel cuore di Edith Stein. La furia nazista l’ha prelevata anche nel silenzio del Carmelo, dove per scelta libera e consapevole aveva deciso di abbandonare la cattedra filosofica per scrutare le misteriose ed affascinanti vie che conducono dal “fenomeno al fondamento”. In Calabria, oggi, ricordiamo un martire della giustizia: il giudice Antonino Scopelliti nel trentesimo anniversario del suo barbaro assassinio voluto dalla cupola siciliana. Anche in lui, come in Edith Stein, sorge un pensiero nuovo capace di penetrare le strette logiche spazio temporali.

Di un’attualità prorompente è, ad esempio, la concezione del magistrato anche nei suoi rapporti tra magistratura e mass media, contenuta in un celebre scritto dal titolo Libertà d’informazione o di diffamazione (pubblicato in “Gli Oratori del Giorno”, Roma, luglio 1987 Anno LV) in cui con grande equilibrio afferma: ”Grande quindi la responsabilità del giudice e del giornalista in ogni momento ed in ogni piega della propria attività […] stampa e magistratura sono oggi i protagonisti più potenti della società italiana; […] hanno il potere di distruggere l’immagine di chiunque con una frettolosa comunicazione giudiziaria o con un insidioso articolo nella pagina interna di un giornale; che la nostra è una società in cui un qualsiasi pentito (vero o presunto) o un subdolo corsivo possono delegittimare la più autorevole delle persone e dissolvere il prestigio di ogni istituzione; che in questo gioco perverso il magistrato e il giornalista stanno coltivando un pericoloso ruolo primario ed è quindi inevitabile che si entri in rotta di collisione non avvedendosi, né l’uno né l’altro che delegittimare è delegittimarsi, uccidere è un po’ suicidarsi”.

Ancora: “ Ora noi magistrati, che abbiamo l’istituzionale compito di regolare i rapporti sociali e garantire l’ordine collettivo e voi giornalisti che avete il compito di informare e che quindi come noi vivete di quotidianità, stiamo diventando un po’ troppo protagonisti della straordinarietà: noi aggrediti dal virus di prima pagina, voi prigionieri dell’enfasi e della drammatizzazione ritenute necessarie per fare il giornale e venderlo…”. Sembrano scritti che riportano pensieri e parole per illuminare la nostra quotidianità!

Il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia allora presieduta da Luciano Violante nel dicembre del 1992 ebbe a dire: “Avevano la sicurezza che il maxiprocesso sarebbe finito in un bluff; le sentenze definitive, cioè, non dovevano accettare il ‘teorema Buscetta’ […]non l’avevano potuto controllare (il dott. Scopelliti, nda); quando non controllano i magistrati, li uccidono. Guardi quanti ne hanno uccisi e si faccia il conto. […] So che non l’avevano potuto contattare, e in ogni caso non era persona contattabile”.

Già, Nino Scopelliti “non era contattabile”: per questo quel 9 agosto di trent’anni fa venne travolto dalla furia mafiosa che, come quella nazista, non può tollerare che menti libere, capaci di superare quella asfissia di pensiero che ci rende talmente depressi da essere incapaci di trovare risposte adeguate ai gravi problemi con i quali oggi facciamo i conti, come la crisi ecologica ed ambientale e le mafie ad esempio.

Urge un’insurrezione culturale che sola potrà liberarci da una cultura esausta, asfittica, per molti calabresi (ma non per tutti) appiattita alla provincialistica logica del destino avverso.

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