Fa tristezza apprendere su questo giornale come la Basilica di San Marco a Venezia sia tuttora indifesa contro l’acqua alta. Di norma, c’è un solo capro espiatorio, la mancanza di fondi. Come scrissi in un pedante librone sulle italiche alluvioni dall’Unità ai giorni nostri, viviamo nella “ossessione di chi non sa che cosa dire: i ‘soldi’. Anzi, ‘i soldi per fare le opere’. Un pretesto famoso: tutto è questione dei soldi, colpa dei soldi, storia di soldi”. Probabile che, nel caso specifico, sia così. Ma ci sono soluzioni provvisorie, anche a buon mercato, che possono aiutare a fronteggiare gli allagamenti degli edifici e di interi isolati.

A chi di dovere, suggerisco sommessamente l’acquisto di un libretto pubblicato da Springer a metà del 2019: Flood Proofing in Urban Areas, che ho scritto assieme a due giovani collaboratori. Potrei tradurre il titolo con “Difesa dagli allagamenti in zone urbane” e, devo confessare, non è un libro economico: 114,93 euro in versione cartacea, ma con l’eBook si risparmia parecchio. E spero che la carenza di fondi non renda l’acquisto problematico. Questo volume presenta alcuni, semplici, elementari fondamenti di calcolo, utili alla bisogna, assieme a una moltitudine di metodi, sistemi, equipaggiamenti – permanenti e temporanei – validi a evitare che una inondazione faccia troppi danni.

Nelle more che vengano installate le innovative, spettacolari, straordinarie paratoie che pare siano previste per San Marco (e che non conosco in dettaglio, se non per qualche indiscrezione giornalistica) potrebbe rivelarsi utile ricorrere al mercato del “flood proofing”. Si tratta di un mercato florido che, negli ultimi vent’anni, si è sviluppato enormemente in tutto il mondo. E peccato che l’Italia, quarant’anni fa pioniera in questo campo con Jolly Pirelli, non abbia preso sul serio questo approccio un po’ minimalista e olistico, muovendosi con grande ritardo.

I metodi di flood proofing contemplano una varietà di sistemi diversi, che vanno dai tradizionali sacchetti di sabbia ai moderni sistemi automatici di paratie mobili e auto-innescanti. Sono costruite con i materiali più diversi e hanno una vasta gamma di costi, a seconda delle applicazioni e dei componenti. E ce ne sono pure a buon mercato: anche i piccoli, i poveri, i marginali hanno diritto a restare asciutti. Se, come afferma l’articolista de Il Fatto Quotidiano, “fino a una marea di 88 centimetri, l’acqua non entra, grazie a un sistema di canali interni, pompe e valvole che impediscono la risalita dalle fondamenta. Oltre tale quota, invece, l’acqua entra dalla Piazza”, una barriera mobile auto-innescante potrebbe anche rivelarsi utile, tenuto conto che, quando la marea supera 110 centimetri entra in funzione il Mose. La differenza farebbe 22 centimetri.

Il sistema Mose di paratoie mobili, ideato per la salvaguardia di Venezia, fu il mio primo lavoro di laboratorio, nella lontana primavera 1975. Uno degli ideatori, il professor Marchi, mi aveva comandato alcune esperienze su modello idraulico a piccola scala. Servivano a valutare eventuali fenomeni di risonanza nella interazione della struttura con il moto ondoso. Mose sta per MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, ma l’autore dell’acronimo pensava certo al racconto biblico di Mosè. Confido con soddisfazione di non essermi mai più occupato del progetto. Né fui mai più coinvolto nell’immortale vicenda. Né posso testimoniare direttamente le liti scientifiche, le dispute ambientali, i poco simpatici episodi di corruttela che sarebbero emersi in fase di costruzione. E le polemiche tuttora non mancano, in fase di rodaggio.

Ricordo soltanto che, durante una delle prime riunioni sulla questione veneziana, più dieci anni dopo la tragedia del 1966, Enrico Marchi, uno dei maestri dell’idraulica italiana del Novecento, affermò: “Personalmente serbo una convinzione che ha una semplicità, direi lapalissiana: penso che, prima di tutto, l’attenzione vada posta nel non aggravare la situazione esistente”. Finora, il Mose non l’ha aggravata.

Se possiamo confidare sul Mose a scala lagunare, non si può trascurare la scala locale. Anche le soluzioni semplici – ma non troppo semplici, perché vanno studiate con una certa competenza – possono evitare grossi guai. In Piazza San Marco bisogna far fronte ad acque pressoché ferme, che hanno un impatto assai meno violento rispetto a piene improvvise e impetuose come quelle che hanno colpito duramente le Prealpi lombarde in questi giorni. Salvaguardare la Basilica è quindi una sfida meno ardita che altrove.

All’epoca dei primi esperimenti sul Mose, iniziavo a studiare i fenomeni di erosione e sedimentazione fluviale. E mi ero permesso di sussurrare che il trasporto e la deposizione dei sedimenti avrebbero potuto creare qualche problema al funzionamento a regime di un sistema così delicato. Anche la potenziale fragilità delle cerniere al fondo andava valutata attentamente: non a caso Leonardo da Vinci, uomo soprattutto pratico, adottò una impostazione più conservativa per le sue chiuse, incernierate ai lati. Non vi dico i sorrisini di compassione, gli stessi che ricevetti durante una successiva visita al cantiere lagunare sperimentale che feci con gli studenti del Politecnico di Milano negli anni ’80 del secolo scorso. Costoro hanno ormai qualche capello bianco e possono raccontare quella esperienza anche con toni più spiritosi dei miei. E spero che qualcuno di loro, leggendo per caso il mio post, lo faccia nei commenti.

Il Mose è un sistema geniale, ma la sfida è stata molto ardita. E solo il futuro darà una risposta, soprattutto sui costi di gestione. Come prevedibile e previsto, però, il Mose non basta e, per talune, frequenti, imbarazzanti situazioni, bisogna lavorare anche a piccola scala. A questa scala, la semplicità non guasta. La troppa sì.

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