Spesso sulla carta è tutto bellissimo. Ma è certo che la transizione energetica vedrà vincitori e sconfitti e che quest’ultimi andranno aiutati e sostenuti. Ne è consapevole la Commissione europea che nei sui documenti non nega che ci saranno significative ripercussioni sul mercato del lavoro e impatti di natura sociale. Alla fine, secondo Bruxelles, tutto si sistemerà e la svolta verde creerà più occupazione di quella che farà sparire. Ma non sarà indolore. L’asso nella manica della Ue per lenire le ferite è il Social Climate Fund, fondo che raccoglierà il gettito raccolto con il sistema per lo scambio delle quote di emissione di Co2 (circa 100 miliardi di euro l’anno a regime) per redistribuirlo direttamente alle persone e ai settori più colpiti dalla metamorfosi del tessuto industriale europeo.

Evitare che siano i più deboli a pagare il conto. In sostanza l’aumento del costo di carburanti, bollette eccetera dovrebbe essere più che compensato dai sostegni erogati a lavoratori e aziende provenienti da questi fondo. Così come risorse per oltre 140 miliardi di euro dovrebbero essere messe in campo per accompagnare lavoratori e famiglie coinvolti. Scongiurando così il ripetersi di fenomeni come quello dei gilet gialli in Francia, movimento che in origine fu innescato proprio dagli accresciuti costi di energia e carburante con finalità ambientali.

I settori più immediatamente coinvolti saranno tutti quelli che hanno a che fare con il mondo dei combustibili fossili. Industria estrattiva, trasporti…e naturalmente auto. Stando attenti però a non gettare troppa Co2 negli occhi. I motori elettrici diventano davvero appetibili da un punto di vista ambientale nel momento in cui l’energia per alimentarli è prodotta con fonti rinnovabili e non da centrali alimentati a gas, petrolio o, tantomeno, carbone. Altrimenti il bilancio finale in termini di ricadute ambientali è molto più ambiguo. E gli occupati? In Europa l’industria automobilistica dà lavoro a quasi 4 milioni di persone, circa un decimo dell’intera manifattura. In Germania gli occupati sono oltre 800mila, in Francia 230mila, in Italia 176mila. Uno studio del National Platform Future of Mobility, centro studi del governo tedesco, ipotizza nello scenario più avverso, di una transizione molto accelerata, la perdita di 400mila posti solo in Germania. Quasi uno su due.

Il punto è che un veicolo elettrico richiede circa la metà del tempo per essere assemblato rispetto alle auto tradizionali e il numero di componenti si riduce di un terzo, da 30 a 20mila (diverso il caso delle motorizzazioni ibride che sono anzi più complesse). Continental, che è uno dei più grandi produttori al mondo di componentistica auto (non solo pneumatici) ha avvertito che la velocità della transizione rischia di essere troppo elevata per non avere un impatto traumatico sul settore. Pure molti gruppi europei si stanno muovendo rapidi. Volvo ha annunciato la fine delle motorizzazioni tradizionali per il 2030, 5 anni prima della data fissata da Bruxelles. Stessa scadenza (in Europa) per Ford. Opel cerchia sul calendario il 2028. Volkswagen, primo produttore al mondo insieme a Toyota, vuole dire addio a benzina e gasolio entro il 2040. Un poco più recalcitrante pare Stellantis (Fca + Psa) che in Italia fa il bello e il cattivo tempo ma che è comunque inevitabilmente costretta a seguire l’onda. Diversa la situazione per la nicchia delle supercar, in cui i consumatori guardano meno al prezzo finale e stando agli ultimi dati apprezzano non poco – che sia per moda o per convinzione – i nuovi modelli elettrici.

Se in valori assoluti il saldo finale potrebbe non essere negativo, in concreto, per centinaia di migliaia di lavoratori significherà comunque riqualificarsi, affrontare una fase di cambiamento che non è mai semplice. Come segnala il professor Francesco Zirpoli, docente di Economia e Gestione dell’Innovazione all’Università Cà Foscari di Venezia e direttore scientifico del Center for automotive and mobility innovation, da questo punto di vista l’Italia parte male, in fondo alle classifiche Ocse per quanto riguarda la formazione permanente e l’aggiornamento delle competenze dei lavoratori. Ed è notizia di questi giorni che la riforma degli ammortizzatori e del sistema di accompagnamento dei disoccupati a un nuovo posto è destinata a slittare all’autunno.

“La filiera dell’auto italiana sconta peraltro un ritardo negli investimenti accumulato negli anni , spiega il professor Zirpoli che aggiunge: “La progressiva erosione dell’occupazione, le chiusure a cui assistiamo in questi mesi, vengono da qui più che dall’attuale svolta verde”. Inoltre, aggiunge il docente, i destini dell’auto in Italia dipendono quasi esclusivamente dalle scelte che farà, o non farà, Stellantis. “In generale”, ragiona Zirpoli, “gli obiettivi di sostenibilità ambientale imporranno non solo un cambio di motorizzazione ma un più generale ripensamento della mobilità che, inevitabilmente, produrrà un ridimensionamento dei volumi produttivi delle quattro ruote”. Sono svolte che vanno programmate e gestite.

Per molti osservatori ha più senso parlare di posti che si trasformano più che di posti che si perdono. Nuove filiere, a cominciare da quella delle batterie e dell’infrastrutturazioni elettriche sono inevitabilmente destinate a crescere. Ecco perché altre stime, tra cui quella del Centre Automotive Research, sono molto più ottimistiche, concludendo che alla fine i posti creati supereranno quelli persi. Ci sono tuttavia molti “però”. La produzione di batterie è al momento soprattutto cosa cinese o comunque asiatica. Il rischio è che i posti persi in Germania, Italia, Francia o Polonia si ricreino soprattutto in Cina o in Corea. La partita è comunque aperta anche perché gli stessi produttori asiatici stanno siglando alleanze in Europa per aprire siti nel Vecchio Continente. In quest’ottica accelerare sulla transizione potrebbe essere vantaggioso, forzando le tappe per lo sviluppo di nuove competenze e capacità produttive “locali”.

Se avanza piano l’alleanza europea per la batteria elettrica, siglata nel 2017 coinvolgendo 250 tra aziende ed enti pubblici, ma che per ora non ha ancora aperto uno stabilimento dei 17 programmati, già dal 2019 Francia e Germania lavorano insieme per dar vita all'”Airbus delle batterie”, prendendo esempio dalla fortunata collaborazione nel settore aereo, con investimenti da 6 miliardi. Il governo tedesco ha stanziato con il suo Recovery plan, 2,5 miliardi di euro per lo sviluppo della filiera delle batterie e la mobilità elettrica. L’Unione europea spinge per progetti comunitari ma, a differenza di Parigi e Berlino, Roma sembra per ora più timida.

Eppure l’Italia ha però sviluppato buone competenze nel settore. Stellantis aprirà la sua terza gigafactory a Termoli e Italvolt ipotizza la creazione di un grande stabilimento per batterie in Italia. Vicino a Caserta opera già Faam e pochi giorni fa un decreto ministeriale ha sbloccato finanziamenti da mezzo miliardo di euro per il raddoppio dello stabilimento con l’assunzione di 625 persone entro il 2023. Il Pnrr italiano però fa poco fa per le batterie made in Italy: stanzia 750 milioni di euro per portare a 100mila il numero di colonnine di ricarica ma non prevede progetti specifici nella motorizzazione elettrica per quanto non manchino riferimenti al tema. Nelle 300 pagine del documento il termine batteria compare 7 volte ma mai affiancato da una cifra. Come si legge in uno dei passaggi : “Analogamente i forti investimenti nel settore delle mobilità elettrica pongono il problema dello sviluppo di una filiera europea delle batterie alla quale dovrebbe partecipare anche l’Italia insieme ad altri Paesi come Francia e Germania, onde evitare una eccessiva dipendenza futura dai produttori stranieri che impatterebbe in maniera negativa sull’elettrificazione progressiva del parco circolante sia pubblico che privato“.

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