Ero un ragazzo di 23 anni quando approdai a Genova. I mesi che precedettero furono colmi di letture sociali, culturali e politiche forsennate, la mia adolescenza costellata di musica suonata negli scantinati, nei pub e nei festival mentre la mia passione iniziata nella sezione sperimentale del tecnico informatico continuava nella facoltà di Ingegneria arruolandomi tra i pionieri della rete e del digitale.

Ogni giorno che passava una forza più grande di me mi obbligava a non mancare quell’appuntamento con la storia, era una strana vibrazione di giustizia negata in ogni angolo della terra, di comunità insorgenti che non si rassegnavano, di squarcio che si stava aprendo nella storia per costruire un altro mondo possibile ed il mio fluire insieme alla moltitudine avrebbe permesso di aprire una crepa più grande. Partii con i gli amici Franco e Gianfranco mentre la mia ragazza sulla banchina della stazione mi consegnava une lettera e un pupazzo portafortuna che agganciai al mio zaino come se dovessi allontanarmi per un tempo indefinito, ma erano solo 3 giorni.

Il nostro arrivo fu una esplosione di colori, di volti, di generazioni, di storie. Entrammo in corteo per i diritti dei migranti il 19 Luglio, una splendida Genova soleggiata che sinuosa scendeva verso il mare e la spiaggia, con l’acqua spruzzata dai balconi dai genovesi per noi viandanti globali. Dipingemmo le mani di bianco, corremmo verso piazzale Kennedy avidi della musica di Manu Chao mentre ci veniva offerta una pizza che usciva bollente da un forno in pietra costruito per l’occasione dalla comunità degli Elfi, a noi la libertà di decidere quanto pagare per la cena. Avevamo visto giusto, eravamo una moltitudine con la cultura del dono, giovani che non volevano nulla per se e tutto per gli altri e con la gioia, l’entusiasmo e l’irriverenza assediavano i potenti con la creazione inedita di una immensa rete sociale.

Uomini e donne senza indumenti sotto la doccia allestita al centro dello Stadio Carlini dopo la sudata manifestazione, come fratelli e sorelle a rivendicare il più naturale dei gesti nel luogo dove avremmo trascorso le prossime notti nei sacchi a pelo per partecipare alle manifestazioni dei giorni successivi, in un prato che richiamava un clima da Woodstock. La rete sociale napoletana che nel 17 marzo 2001 dava vita al Global Forum di Napoli ci aveva condotto sulla rotta del Carlini.

Venerdì una tromba incalzante lanciata attraverso gli altoparlanti ci dava una sveglia decisa e ci chiamava al raduno per le istruzioni. Mostrarono le protezioni per il corteo con gli scudi in Plexiglas per proteggerci da cariche, i caschi per proteggerci da lanci e mascherine, fazzoletti e limoni per proteggerci dai lacrimogeni. Uscimmo dallo stadio e dopo pochi minuti vedemmo Genova sotto di noi in fiamme. Fumi neri che salivano nel cielo in diversi punti della città quando le manifestazioni come la nostra, come tutte le altre erano appena partite. I poliziotti avevano costruito un blocco molto in alto e ben lontano dai cancelli e dalle reti saldate in tutta la città intorno al vertice degli 8 stati più potenti del mondo. Il nostro corteo fu presto fermo, sospeso tra i fumi neri della città che non facevano presagire nulla di buono e la necessità di continuare ad esserci, con il nostro corpo testimonianza viva di mondi possibili.

Mi avvicinai il più possibile al blocco dei poliziotti perché volevo essere testimone oculare in un momento in cui la stampa di quei giorni stravolgeva la realtà ma ai primi lanci di lacrimogeni fu Gianfranco a trattenermi e a consigliarmi di tornare indietro. Il percorso a ritroso non fu lineare, giravamo, svoltavamo in strade per noi sconosciute ed ogni tanto avvistavamo camionette, poliziotti, manifestanti con facce oggi perdute, occhi spaventati fino ad incontrare una splendida ragazza che aveva il sangue che gli colava in un rivolo rosso troppo grande dalla testa.

Il primo pomeriggio eravamo di nuovo allo stadio in un clima di assedio, pensavamo che da un momento all’altro la polizia avrebbe potuto entrare anche lì e poi giunge a tutti la notizia di Carlo Giuliani e la sua morte. C’è smarrimento ci si chiede cosa fare soprattutto per il giorno dopo e dopo consultazioni serrate si decide non solo di confermare le manifestazioni del sabato ma di rilanciarle. Gli italiani risposero con una massa di circa 300mila cittadini indignati che si riversarono il giorno dopo per le strade di Genova oltre ogni rosea aspettativa mentre avremmo scoperto che almeno lo stesso numero di persone veniva fermato in luoghi ben lontani da Genova.

Il giorno dopo le scene si ripeterono con la differenza che dentro al corteo ormai era evidente che eravamo stati infiltrati da poliziotti. Franco mi fa notare 2 uomini e una donna dietro di noi vestiti da “no global” posticci che ogni 20 minuti facevano un rapporto al cellulare parlando con “mamma” mentre il giorno prima un altro si era cambiato in strada per dismettere la divisa di manifestante rivoluzionario. Indecisi se restare un’altra notte a dormire in una scuola decidiamo di rientrare con il treno di sabato e dopo 3 giorni mi riguardo riflesso nei vetri della carrozza del treno e vedo un viso cotto dal sole, con delle cicatrici invisibili sul volto.

Torno a casa e i miei sono a pranzo, tv accesa e teste spaccate in mondo visione in mezzo a luce blu lampeggiante. E’ la mattanza della Diaz e per la prima volta nella mia vita singhiozzo e sento le stesse ferite che vedo in tv sul mio corpo.

Il movimento dei movimenti non muore lì come vorrebbe la narrazione perché io, Franco, Gianfranco e con noi sicuramente in tanti hanno scelto la linea dell’impegno, alla repressione hanno risposto con l’attivismo sui nervi più scoperti del sistema. Oggi dopo 10 anni di attivismo sociale e 10 anni di attivismo politico mi sento di essere un figlio del movimento dei movimenti che ancora di più ha la responsabilità di elaborare, dire e fare sempre con maggior lucidità perché un altro mondo non c’è, è solo questo e dobbiamo salvarlo.

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