Per secoli ci hanno propinato l’emerita balla del “british style”. Come scrisse Melchiorre Gioia all’inizio del suo “Nuovo galateo”, un frutto selvatico nasce talvolta tra le spine, “ed amaro riesce od insipido al palato”. Ma l’innesto e la coltura lo spogliano delle spine, “e dolce lo rendono e saporito”. Metafora della civilizzazione.

Domenica sera, invece, a Wembley e dintorni gli inglesi si sono dimostrati rozzi e villani. Ed anche peggio. Sull’account del diciannovenne Bukayo Saka, reo – agli occhi dei tifosi – di aver sbagliato il rigore decisivo, sono piovuti disgustosi insulti razzisti, “go back to Nigeria”, “get out my country” e via col miserabile repertorio della xenofobia e delle offese discriminatorie, dirette anche agli altri due giocatori che hanno sbagliato il tiro dagli undici metri, Marcus Rashford e Jadon Sancho: “E’ inaccettabile” è stato il commento della Met Police londinese che nel frattempo aveva arrestato 45 ultras per le aggressioni nei confronti dei tifosi italiani (c’è stata dopo la partita una vera e propria caccia nei loro confronti) e per le devastazioni attorno allo stadio e nelle piazze dove c’erano stati assembramenti e risse furiose. Un conto è essere fan. Un altro, fanatici.

Discutibile, se non irriguardoso, poi, l’atteggiamento dei giocatori inglesi durante la premiazione per il secondo posto. Molti di loro si sono sfilati dal collo la medaglia, in segno di disprezzo. Tutti non si sono complimentati con gli azzurri, in spregio alle più elementari norme della sportività. Per non parlare delle autorità in tribuna, a cominciare dalla famigliola reale del principe William: subito dopo l’ultimo rigore parato da Donnarumma, sono scappate via. Ben diversa fu l’ospitalità di re Juan Carlos che festeggiò con Sandro Pertini il successo dell’Italia al Mondiale 1982 organizzato in Spagna. Era anche allora una domenica 11 luglio. La Nazionale di Mancini ha giocato con la Storia, e ha vinto di nuovo.

Posso capire le aspettative, la frustrazione, l’avvilimento. Ma non la villanìa. Né la prosopopea di chi pensa d’avere già vinto, come traspare dalla lettera di auguri della regina Elisabetta inviata la vigilia della finale di Wembley alla squadra inglese, in cui ricorda la grande soddisfazione per aver consegnato nel 1966 il trofeo mondiale a Bobby Moore, ed esprime la speranza “che la partita passerà alla storia non solo per il successo ma anche per lo spirito e per l’orgoglio con il quale l’affronterete”.

Quando Boris Johnson ha salutato il nostro presidente Sergio Mattarella, all’arrivo allo stadio, gli ha detto in italiano “Forza Italia!”, ed è stato simpatico. Indossava sotto la giacca la maglietta bianca dell’Inghilterra. Però dopo la fine della partita, si è dileguato.

Il sobrio Mattarella durante tutto l’incontro ha manifestato un tifo assai contenuto, non senza però qualche commento venato da pacata ironìa tutta siciliana (Vitaliano Brancati insegna…). All’inizio della fatidica sequenza dei rigori, ha sussurrato a chi gli stava accanto (Valentina Vezzali, la grande fiorettista oggi sottosegretario allo Sport; la vulcanica Evelina Christillin, consigliera Uefa; Gabriele Gravina, presidente della Figc): “Siamo nelle mani, anzi no, siamo nelle manone di Donnarumma”. Quando il bravo portiere inglese Jordan Pickford ha parato il tiro di Jorginho, quello che avrebbe dato la vittoria all’Italia, non è riuscito a celare la delusione, “mai avrei pensato che proprio lui avrebbe sbagliato…”.

Solo dopo la seconda parata di Donnarumma, aiutato da Matteo Berrettini e dalla Vezzali, ha esposto il tricolore, in uno stadio ammutolito e zeppo come un uovo (altro che due terzi della capienza, come assicurato dagli organizzatori). Nel silenzio tragico della sconfitta ignominiosa, i tifosi inglesi sono usciti in men che non si dica. Pure questo, un brutto gesto collettivo. Meritano il nostro cippirimerlo, sberleffo onomatopeico che Gianni Brera scriveva e descriveva spesso e volentieri: dovrebbe essere accompagnato da un frullo di tutte le dita allineate davanti alla punta del naso.

Consola Mattarella, snobbato dai reali e dal cafonal delle autorità brexiste, il fatto che il 70 per cento dei francesi, come asserisce l’Equipe (titolo della prima pagina: “La felicità”, in italiano) abbia tifato per l’Italia, percentuale che sale al 75 per cento in Spagna, grazie anche alla signorile dichiarazione di Luis Enrique dopo la sconfitta, ai rigori in semifinale, che avrebbe tifato la Squadra Azzurra. Pure il tennista Novak Djokovic, che aveva appena sconfitto in quattro set Matteo Berrettini e conquistato il suo sesto titolo di Wimbledon, il terzo consecutivo e che si prenota per il Grande Slam. La stessa raffinata Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, si è sbilanciata, anche per ovvie ragioni politiche, l’Italia in campo per l’Unione Europea e l’Inghilterra per il deprecabile e divisivo sovranismo della Brexit: “Il mio cuore è con l’Italia”. I giornali belgi hanno enfatizzato il successo della banda Mancini, caroselli e gran tifo ci sono stati a Bruxelles, in molte altre capitali dove la presenza dei nostri emigrati e consistente (Australia, sud America).

Hanno gioito, ovviamente, gli scozzesi, per ataviche ragioni: “It’s coming Rome!”, sfotte in prima pagina il quotidiano indipendentista The National. Il 63 per cento degli scozzesi, dei gallesi e degli irlandesi del nord hanno tifato l’Italia. Non solo entusiasmo. Ma anche tentativi di spiegare gli effetti collaterali di un simile successo appesantito inevitabilmente da responsabilità e attese che vanno ben oltre l’evento sportivo. Significativo, in questo senso, l’articolo di Le Monde che dedica una pagina intera alla “Renaissance italienne” (foto e richiamo in prima pagina) intitolato: “Una vittoria può far dimenticare il lutto, la paura e le restrizioni”.

Nessuno però ha avuto l’ardire di scomodare Maradona, come il Clarin di Buenos Aires, sicuro che mai come in questo week end da lassù ha potuto gioire: l’Argentina di Messi (non più Messinscena…) ha vinto il titolo sudamericano battendo in casa, al Maracanà, il Brasile. L’Italia, seconda patria del Pibe de Oro, dove ha giocato col Napoli le sue migliori stagioni, ha disilluso l’Inghilterra battendola nel suo “antro” di Wembley. La Mano de Dios. La manona di Gigi Donnarumma. Mirabile gioco di Eupalla e dei suoi destini variamente incrociati.

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