Non ne dovrà restare nemmeno uno. L’obiettivo del regime del Cairo in questi otto anni di dittatura vecchio stile è stato eliminare il dissenso interno per mantenere l’ordine e fare bella figura con le grandi potenze internazionali e regionali, a partire da Israele. Dal 2013 a oggi il presidente Abdel Fattah al-Sisi e i suoi più stretti collaboratori hanno applicato un piano studiato nei minimi dettagli che consentisse loro di ottenere una anestetizzazione del pensiero ostile, schiacciando i presunti nemici dello Stato. Lo hanno fatto seguendo una strategia a due velocità figlia di quanto accaduto nel gennaio 2011, la data spartiacque della storia contemporanea del Paese dei Faraoni: colpire il radicalismo islamico con una vasta epurazione fatta di sentenze di carcere a vita ed esecuzioni sommarie; annichilire l’opposizione progressista disinnescando le voci più ostili, avviando una massiccia campagna di arresti per reati di opinione e applicando il sistema della carcerazione preventiva fatta di processi-farsa e detenzioni rimandate per anni. Eliminare fisicamente i membri dei Fratelli Musulmani e sfinire, sfibrare l’anima democratica. Ciò che sta accadendo oggi, in questi giorni, è esattamente il risultato di quel piano diabolico.

Dall’inizio del 2021 il regime ha giustiziato 51 persone, dopo le oltre 100 condanne a morte del 2020, e in lista d’attesa ci sono decine di detenuti; per il 90% si tratta di membri, simpatizzanti, o presunti tali, della Fratellanza Musulmana. A seguire, ha rinchiuso nelle sue carceri, buttando via la chiave, la meglio gioventù egiziana: studenti, artisti, blogger, avvocati, professionisti, medici. Patrick Zaki è uno di loro e come lui Ahmed Samir Santawi, Alaa Abdel Fattah e sua sorella Sana Seif, Ahmed Douma, Esraa Abdel Fattah, Hisham Fouad, Maynour al-Masry, Mohamed al-Baqr fino a Ziad al-Alimi e Ramy Shaat e altre centinaia di persone. L’emblema di una giustizia assurda e mirata sono proprio Patrick Zaki e Ahmed Samir Santawi: 30enni, studenti universitari a Bologna e Vienna, arrestati al loro rientro in patria per una vacanza a causa di alcuni post su Facebook dai rispettivi paesi di adozione. Zaki si avvicina all’anno e mezzo di detenzione senza processo, Santawi, condannato invece a 4 anni per terrorismo, è entrato nella terza settimana di sciopero della fame. In Egitto chi non rischia condanne di alcun genere sono le famiglie vicine al regime, il ceto benestante della società, imprenditori, militari, politici, con tanto di rampolli. Ne è prova la sorte del processo per lo stupro di massa all’interno del Fairmont Hotel sul lungo Nilo ai danni di una giovane. Nonostante le testimonianze e le prove raccolte, il processo nei confronti degli imputati, giovani facoltosi e figli dell’Egitto ‘bene’, è finito nel nulla e tutti sono stati rilasciati. Alla fine chi ha pagato il prezzo più pesante sono stati i testimoni stessi di quel drammatico episodio.

La ‘piazza’ nei giorni di fine gennaio di dieci anni fa rovesciò il potere consolidato in oltre mezzo secolo, da Nasser a Mubarak, liberando il pensiero alternativo. In quella ‘agorà’ che chiedeva libertà e diritti non c’erano soltanto i seguaci della storica corrente laica e progressista dell’Egitto, di una sinistra virtuosa, l’anima della grande Rivoluzione di piazza Tahrir; sotto traccia, ma neppure troppo, lavorava anche il radicalismo dei Fratelli Musulmani che, infatti, l’anno successivo si aggiudicarono le prime elezioni ‘libere’ post Mubarak. Concedere il Paese alla Fratellanza suscitò le vive preoccupazioni dell’Occidente, impegnato a impedire che l’Egitto facesse la fine dell’Iraq, della Siria e della Libia; così, tempo un anno, proprio all’inizio dell’estate del 2013, l’allora Ministro della Difesa, il generale al-Sisi, guidò un golpe contro il governo del presidente Mohamed Morsi, rovesciandolo e mettendosi al comando del Paese. Nasceva, in questi giorni di otto anni fa, il regime della ‘restaurazione’, stavolta in grado di evitare gli errori commessi da Hosni Mubarak.

Il vero spartiacque della strategia del regime sono i fatti sanguinosi legati alle manifestazioni di protesta organizzate dai Fratelli Musulmani al Cairo a metà agosto del 2013. Il 14, in particolare, i militari e la polizia intervennero nelle piazze Raba’a e Nahda provocando un bagno di sangue. Morirono circa un migliaio di persone e altrettante finirono in carcere, tra loro l’ex presidente e leader della Fratellanza, Mohamed Morsi, e i vertici del movimento politico e religioso radicale. Oggi, luglio 2021, il regime sta giustiziando pezzi del movimento politico in relazione a quei fatti. A giugno sono state impiccate 21 persone, tutte appartenenti ai Fratelli Musulmani; 9 all’inizio e 12 alla fine del mese. Nonostante le proteste e le prese di posizione delle organizzazioni a tutela dei diritti umani, da Amnesty International a tutte le ong egiziane da sempre in prima linea contro il regime del Cairo, in lista d’attesa per il patibolo ci sono decine e decine di condannati a morte.

Tra le personalità di spicco ormai prossime a essere giustiziate figura anche l’imam Safwat Hegazy, un predicatore anti-sionista bandito dal Regno Unito per ‘aver fomentato l’odio’. Hegazy faceva parte della rivolta del 2011, sebbene da una parte differente rispetto all’anima progressista che ha animato piazza Tahrir. In attesa di un aggiornamento, il 4 luglio il regime ha giustiziato tre persone per un attentato avvenuto ad Alessandria d’Egitto nel 2018 dove era stato ucciso un ex capo della sicurezza del governatorato del nord, Mustafa al-Nemr, e due agenti della scorta. Uno dei tre impiccati, Moataz Mostafa Hassan, aveva 25 anni, era uno studente di ingegneria e secondo le organizzazioni a difesa dei diritti umani si è trattato di una enorme topica e di una gravissima ingiustizia: “Il giovane è stato costretto a confessare un crimine mai commesso – è il duro affondo di Ahmed Attar, direttore dell’Enhr, una ong del Cairo -. Per estorcere quella confessione la National Security ha arrestato la madre e la sorella di Moataz, torturato e minacciato di violenza e di morte le due donne spingendo il giovane ad attribuirsi un reato inesistente. Lui con quell’attentato non c’entrava nulla”.

La condanna alla pena capitale per il 25enne è arrivata il 14 giugno del 2020 dopo essere stato collegato ad una cellula terroristica affiliata alla Fratellanza. Con i leader storici morti in cella tra il 2019 e il 2020, prima Mohamed Morsi (in realtà colto da infarto durante un’udienza in tribunale) e poi Essam al-Erian, e altri esponenti di spicco in prigione o già seppelliti, i Fratelli Musulmani in Egitto sono stati praticamente annientati. Resta molto attiva e organizzata la rappresentanza fuggita in Turchia, fino a oggi ‘protetta’ indirettamente dall’Akp, il partito del presidente Recep Tayyip Erdogan. Il dialogo e una nuova simpatia tra i due dittatori dell’area mediorientale rischia, tuttavia, di mettere in pericolo anche quella ‘cellula’. L’impunità non è più garantita, a contare sono gli accordi geopolitici, militari ed economici tra Erdogan e al-Sisi, mai stati così vicini a stringere accordi duraturi. Non è un caso che di recente alcuni oppositori al regime del Cairo siano stati respinti all’arrivo in aeroporto a Istanbul e Ankara. Un ultimo dettaglio, infine. Nelle carceri egiziane, Tora al Cairo su tutte, si muore anche per negligenza. Poco fa è arrivata la notizia della morte di un insegnante di 63 anni, malato di cancro al fegato, anche lui accusato di terrorismo per i fatti di piazza Raba’a. Nonostante il suo quadro clinico irreversibile le autorità penitenziarie non gli hanno concesso il trasferimento in ospedale per ricevere le cure mediche.

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