Nel giorno della morte, Angelo Del Boca è stato ricordato soprattutto per il suo lavoro sui crimini del colonialismo italiano, ma personalmente ho avuto la fortuna di conoscerlo per un altro aspetto fondamentale della sua vita e del suo lavoro di saggista: il suo passato da partigiano.

L’approccio fu indimenticabile. Con due amici, il collega Claudio Jampaglia e il fotografo Samuele Pellecchia, ci eravamo messi in testa di ricostruire le gesta efferate dei “mongoli” fra le colline del piacentino nel periodo più cupo della Seconda guerra mondiale. “Mongoli” era la definizione rimasta incisa nell’immaginario della popolazione locale in riferimento alla 162esima Divisione Turkestan, composta da prigionieri provenienti dalla periferia dell’Urss che combattevano al fianco dei tedeschi: calmucchi, uzbeki, azerbaigiani, karakalpachi, tartari, ucraini, kirghisi, georgiani… Molti decenni dopo quei fatti – eravamo nel 2007, l’articolo sarebbe poi uscito sullo speciale “Memoria” del settimanale Diario – quella parola veniva pronunciata a stento, tanto pesava ancora il carico di stupri, omicidi, violenze che i “mongoli” si erano lasciati indietro.

Materiale scritto ce n’era poco, e fra quel poco mi ero imbattuto in un testo in cui Del Boca raccontava di loro non per averli studiati da storico, ma per averli personalmente fronteggiati armi in pugno da partigiano. Con un certo timore reverenziale gli telefonai e gli spiegai sommariamente il nostro progetto. Non scorderò mai la sua risposta immediata: “I mongoli? Me li ricordo bene. Uno l’ho interrogato. Per la verità ne ho anche fatti fucilare un paio“.

Mi colpì subito la sua schiettezza verso un perfetto sconosciuto, per di più giornalista, in un’epoca in cui si evocava periodicamente la “equiparazione” fra i partigiani e i combattenti di Salò. Oltretutto Del Boca era stato partigiano “moderato”, se così si può dire, dato che aveva combattuto nella Settima brigata di Giustizia e Libertà, dopo aver disertato da militare della Repubblica sociale italiana portandosi dietro 15 alpini della Monterosa in armi. Moderato forse, ma irriducibile, più di sessant’anni dopo, a tracciare una linea netta tra i due fronti.

Fu disponibilissimo, ci ospitò nella residenza di famiglia a Lisignano, nel piacentino, ci fornì memoria e documenti. Ci raccontò nel dettaglio i combattimenti feroci dell’inverno del 1944 e la storia della fucilazione. Una ragazza disperata aveva raggiunto la brigata perché tre “mongoli” erano arrivati in casa intenzionati a violentare sua madre e sua sorella. Del Boca prese un paio di uomini e si precipitò sul posto. I tre avevano già le braghe calate e catturarli non fu difficile. “Devo dire – ci raccontò – che mai sono stato così cattivo in vita mia. Feci fare loro il ritorno fino al comando a calci nel culo. Provavo odio e rabbia. Il comandante diede l’ordine di fucilarli subito, in tre o quattro li presero e li portarono in un boschetto. Due mongoli caddero morti, il terzo, ferito, rotolò giù in una gola e riuscì a scappare”.

Al termine dell’incontro ci regalò una raccolta di tre suoi “romanzi brevi” pubblicata nel 1955 da Vallecchi, Viaggio nella luna, che aveva per filo conduttore la guerra, a cominciare proprio dalla guerra partigiana. La lessi e rimasi folgorato: il giornalista, storico, saggista Angelo Del Boca aveva anche il passo del grande narratore. Da allora quel volumetto con la copertina gialla sta in libreria di fianco ai classici di quella narrativa, da Pavese a Calvino. E ci sta benissimo.

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