La Spagna ha giocato meglio dell’Italia, nessuno lo nega. Ma ha perso.

La Spagna ha tirato in porta sedici volte, noi sette. Ma ha perso lo stesso.

La Spagna ha dominato nel possesso del pallone (70 per cento). Ma ha perso nonostante l’umiliante supremazia.

Essere padroni della palla per tantissimo tempo non è sinonimo di vittoria. Raccontava un allenatore del Marsiglia che una volta portò una splendida ragazza in un locale e ci rimase sino a tarda notte: “Flirtavamo che era un piacere… ore e ore… poi arrivò un bel tomo, la guardò negli occhi, le fece un cenno. Lei si alzò, lo seguì nella toilette e lì fece all’amore. Però io ho avuto il possesso della ragazza per quasi tutto il tempo…”. Certi colpi bassi del destino dribblano qualsiasi teoria della pedata. Per questo, il gioco del calcio è anche questione di cuore.

I serbi hanno assediato per quattro anni Sarajevo: ma i suoi abitanti hanno resistito. E Belgrado ha perso la guerra. Gli Azzurri non hanno abbassato lo sguardo quando sono stati attaccati dalla Roja. I denti mordevano le labbra, l’obiettivo era resistere sino alla fine dei tempi supplementari. Bonucci, Chiellini e compadres non si sono smarriti nelle loro paure interiori. Non hanno rinunciato alla speranza. Alla fiducia (in Donnarumma). Non hanno capitolato. E se la paura, umana (troppo umana, secondo Nietzsche) covava nella loro mente, loro l’hanno trasformata nell’ennesima occasione. Intanto, arriviamo indenni sino ai tiri dei rigori. Poi, avrebbero potuto farcela ancora. Potevano vincere.

Sono stati caparbi. Sognatori. E fortunati.

L’Italia è stata un’Italia “muy italianizada”, ha scritto El Pais. Difesa ad oltranza. Contropiede. Il gol di Chiesa è la dimostrazione del teorema di Nereo Rocco, quando allenava il Padova. La domenica del 29 aprile 1956 un giornalista torinese gli augurò “vinca il migliore!”. Il Paròn rispose “Ciò, speremo de no!”. Il Padova ospitava allo stadio Appiani la Juventus di Boniperti e Stacchini. Finì 1-1.

Come ieri sera, a Wembley, prima dei calci di rigore. I fatidici tiri del tutto o niente. Della gloria o dell’onta.

Il miglior rigorista italiano, dicono, sia stato Giampiero Testa da Magenta (classe 1938), giocava in serie C e non sbagliò mai un penalty. Diceva: “Per tirare bene un calcio di rigore bisogna avere la testa libera”, per forza, con quel cognome… ma lo ha confermato Jorginho, col suo meraviglioso fatale ultimo rigore, finta di corpo, portiere spagnolo spiazzato che si butta sulla sua destra, il centrocampista del Chelsea che lo beffa con la palla che rotola non forte ma sicura verso l’angolino opposto. Unai Simon, il portiere della Spagna, lo applaude. Azpilicueta, il “suo” capitano in Premier League, dice a chi gli sta vicino: “Jorge non sbaglia mai, è una sicurezza. Purtroppo per noi”. Però è tra i primi avversari che gli stringe la mano.

Tanto ruvidi e non sempre leali sono stati gli interventi in campo, dettati da giustificata animosità e da elevata febbre agonistica. Tuttavia, quanto invece corretto e amichevole è stato il clima di fine partita, i saluti, il rispetto – in fondo Morata che ha segnato per la Spagna è compagno di squadra alla Juve di Bonucci, Chiellini, Chiesa. L’abbraccio dei due portieri, prima delle sentenze dagli undici metri. O lo scambio di battute fra i due capitani mentre scelgono dove battere i rigori. O Luis Enrique che scherza con Chiesa.

E’ calato il sipario su uno spettacolo ad altissima tensione. Lezioni di football. Luis Enrique si è preoccupato di fare calcio. Roberto Mancini di gestire la vittoria. Il migliore in campo, Dani Olmo, ha sparacchiato in tribuna il suo rigore. Morata, l’autore del pareggio spagnolo, si è fatto parare il tiro da Donnarumma. Jorginho ha matato il toro rosso. Non è la trama perfetta di un thriller?

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