Oltre alla fuga di cervelli esiste anche una fuga di occhi.

In Italia l’utilizzo del fotogiornalismo di valore è ormai un fatto episodico e raro: un’editoria generalmente ansimante, letargica e impoverita da tempo non crede più nel ruolo centrale della fotografia e ribatte che sono i lettori a non premiare chi investe sulle immagini. E’ nato dunque prima l’uovo o la gallina?

Il paradosso è che alcuni fotogiornalisti italiani sono considerati tra i migliori del mondo e si fanno onore ovunque, lavorando per le maggiori testate internazionali e ricevendo grandi riconoscimenti. Ancora una volta, come in molti settori, non sappiamo valorizzare e dare spazio ai nostri talenti, che sono costretti a rivolgersi altrove.

La storia del fotogiornalismo italiano è sicuramente anomala e disordinata, senza un’evoluzione coerente come avvenuto altrove, ma ha espresso nel tempo autori formidabili, in un percorso accidentato che passa per nomi come Patellani, Garrubba Lucas, Berengo Gardin, Scianna, Moroldo, Giancolombo, Fusar, De Biasi, Galligani, Lotti, Del Grande, Bavagnoli, Cagnoni, Giaccone, Cito, Zecchin, Pellegrin, Zizola, Majoli e tanti altri (impossibile qui tentare un inventario), fino a una generazione di giovani che ancora credono nel ruolo del reportage fotografico e si aggregano talvolta in collettivi per unire le forze e trovare mercati oltre i confini di questo Paese, anche grazie alle possibilità offerte dalla rete, che da matrigna qualche volta si fa madre.

Un filo che arriva ai vincitori dell’ultimo World Press Photo dove, come ogni anno, gli italiani si sono fatti notare tra migliaia di fotografi di tutto il mondo. Fra i tre connazionali vincitori di quest’edizione, per fare solo un esempio, è di grande potenza e intensità il lavoro a lungo termine che Antonio Faccilongo ha intitolato “Habibi”, la storia di come molte donne palestinesi riescano a diventare madri nonostante i loro mariti siano rinchiusi nelle carceri israeliane.

Un esempio eclatante del valore giornalistico, etico, estetico e storico che ha raggiunto il reportage in Italia è legato al nome di Ivo Saglietti, un fotografo di eccelsa qualità visiva, culturale e umana. Tre caratteristiche, queste, che non possono e non devono mai separarsi. Per dare lustro al lungo cammino di Ivo, uomo a suo modo romantico, un solitario che ama l’umanità, ci voleva un editore altrettanto romantico, e così Claudio Corrivetti di Postcart gli ha appena dedicato un libro che – curato da Federico Montaldo – tra fotografie e parole ricostruisce il percorso di questo grande autore e del suo “sguardo inquieto”. Ne esce una splendida lezione, di vita prima ancora che di fotografia.

Saglietti, nell’epoca d’oro del reportage, ha pubblicato su tutte le principali testate mondiali, ha viaggiato ai quattro angoli del pianeta raccontando la condizione umana tra conflitti, malattie, carestie, dittature e altre sofferenze, sempre però con un occhio all’empatia, all’etica e alla speranza. E quella strada continua a percorrere, anche se oggi questo lavoro sembra sempre più una sfida e un atto di fede.

Saglietti ha il passo della grande tradizione umanistica e stilistica, quella che vede in W. Eugene Smith un faro, per capirci. Ma, accanto al suo grande spessore, Saglietti ha quello che oggi risulta essere un enorme e imperdonabile “difetto”: la discrezione. Lui non sgomita, non urla, non si agita, non fa salamelecchi, non cerca i like, non fa marketing, insomma, è una persona piena di pudore e delicatezza. Dunque tutto il contrario di quel modello “abile manager di se stesso” oggi vincente. Temo che, se chiediamo a cento giovani e rampanti fotografi italiani “Conosci Ivo Saglietti?”, tra le risposte rischiamo di avere molti sguardi persi e bocche chiuse.

Questo libro è una buona occasione per conoscerlo meglio e per capire l’intensità e il mondo emotivo, le intime motivazioni e anche le lotte interiori che abitano chi, come lui, sceglie di raccontare storie di vita e pezzi di Storia.

Altra opportunità che lo riguarda è una mostra, in corso fino al 27 giugno ad Alba, intitolata “Sotto la tenda di Abramo”, il racconto di un luogo in Siria dove le differenti religioni si abbracciano anziché scontrarsi.

Oggi il reportage fotografico cambia nel modo di proporsi, tenta di resistere ibridandosi con linguaggi nuovi e contemporanei, e questo è in qualche modo fisiologico e giusto. A volte i risultati sono strepitosi, altre deboli e pretestuosi. Sta di fatto che in molti ritengono anacronistico (intendono fuori moda?) tutto il reportage che si declina nel solco di una tradizione, quella “stile Life”, per intenderci, che viene ancora praticato ma che trova scarso spazio di visibilità, laddove si preferisce invece un’abbagliante e rassicurante leggerezza. Spesso si è intonato il de profundis, ma forse questo nero pessimismo è eccessivo. E se invece, alla lunga, fosse la superficialità a stancarci? Perché il grande reportage, come quello di Saglietti, è proprio questo: un antidoto alla superficialità.

Cambia forse il modo di fare reportage, cambia la sua fruizione ma – a ben guardare – non cambia la sua funzione, che è ancora quella sintetizzata da Edward Steichen nel 1969: “spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso”.

Il fotoreporter, colui che va, c’è, vede e torna ri-portando a noi ciò che ha visto, oggi in Italia è spesso costretto a sentirsi professionalmente un esiliato. Lui ci offre i suoi occhi ma noi, che siamo ciechi, troppo spesso li restituiamo al mittente, il quale ovviamente cambia destinatario. E’ questa la fuga degli occhi.

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