Da Ravenna a Verona, 198 chilometri piatti e dritti. La tredicesima tappa del Recovery Giro si muove a due passi dalla tomba di Dante ed arriva in corso Porta Nuova, a Verona che proprio oggi festeggia San Zeno, patrono della città: via Vigasio, poi via Sacra Famiglia, via dell’Esperanto, via Copernico, viale del Lavoro (dove c’è la Fiera), viale Piave, infine l’infinito rettilineo di corso Porta Nuova, col traguardo all’altezza dei giardini di Pradaval. Insomma, gentile regalo per i velocisti, e tutti si aspettano finalmente un acuto di Elia Viviani, il portabandiera azzurro ai prossimi Giochi di Tokyo che è veronese, ed è stato campione olimpico a Rio de Janeiro, il primo ciclista della storia ad essere portabandiera, il secondo veronese dopo Sara Simeoni (senza dimenticare che la veneziana Federica Pellegrini, portabandiera a Rio, è veronese d’adozione). Insomma, vincesse Elia sarebbe la ciliegina sulla torta, il risultato perfetto (ed annunciato e magari accettato dal gruppo) per dare sostanza, colore e sentimento ad una tappa piatta in ogni senso.

Ma, come nelle serie tv più alla moda, c’è sempre in agguato un clamoroso colpo di scena.

Stavolta è l’allungo suicida, a seicento metri dal traguardo, di Edoardo Affini. Tocca i settanta all’ora. A venti metri dallo striscione, però, lo riacciuffa il milanese Giacomo Nizzolo, classe 1989. Terzo è Peter Sagan, quarto Davide Cimolai. Viviani, appena nono. La sua Cofidis non ha più il “treno” giusto. Per Nizzolo è la vittoria numero 27, la più a lungo inseguita. Calca un cappellino tricolore: è infatti il campione italiano in carica di ciclismo su strada (lo fu già nel 2016) ed è campione europeo. Gli mancava una tappa del Giro, pur avendo vinto per due volte la classifica a punti grazie a tantissimi secondi posti.

Mancava anche un calibro 45 dello sprint, al secolo l’australiano Caleb Ewan, due volate vinte in questo Giro e poi il ritiro; e pure Tim Merlier (primo una volta), messo kappaò da un malessere intestinale. Lo sprint veronese senza l’atteso vincitore veronese è probabilmente l’ultima opportunità che viene offerta ai velocisti. Perché da domani il Giro va quasi sempre in salita. Pendenze. Soprattutto sofferenze.

Ma c’è di più. Domani sarà il momento della verità. Il bivio per chi aspira alla vittoria finale. Per questo, nella testa dei corridori più della tappa di oggi, conta la tappa di domani. Quella che arriva in cima allo Zoncolan, il totem delle salite in bicicletta, considerata la più dura di tutte. Nel cuore della Carnia, tra Sutrio, Ovaro e Ravascletto. Gli austriaci, lì vicino, lo chiamano il Kaiser. Chi l’ha pedalata, come Francesco Guidolin, il Mostro. E’ la settima volta che il Giro l’affronta. Nel 2003 e nel 2007 vinse Gilberto Simoni. Nel 2010, Ivan Basso. L’anno dopo, Igor Anton. Nel 2014 Michael Rogers. Tre anni fa, Chris Froome. Matt White, direttore sportivo di Simon Yates, la definisce una salita “violenta ed implacabile”. Manco fosse Calamity Jane. Alberto Contador, che sapeva domare i monti, scuotendo la testa e cercando di ripigliare fiato, mi disse che la sola cosa che bisognava fare non era attaccare ma “non andare fuori giri”.

Vince, cioè, chi sa amministrare lo sforzo. E il dolore: alle gambe. Alle braccia, che usi quando ti alzi sui pedali, e sullo Zoncolan sei costretto a farlo troppo spesso. Si sale dal versante di Sutrio, per 14,1 chilometri, con pendenza media dell’8,9 per cento. Nell’ultimo chilometro, la media sale al 13 per cento, con punte al 27 (!). La gente dice che sudano persino le auto.

Qui si consumò l’ultima onorevole prestazione del povero Marco Pantani: nel 2003 lottò coi migliori, piazzandosi quinto. Il friulano Pasolini chiamava “salustri” un simile dignitoso commiato. L’attimo di lucidità che precede l’addio. Nel ciclismo è infatti la montagna che fa leggenda, nel bene, nel male. Nei trionfi. Nelle sconfitte. La classe del campione che sopporta l’immonda fatica. La tenacia. La resistenza. Il coraggio. Chi ammira il campione scattare in salita, lo vede come un dio che se ne va in bicicletta, per parafrasare il poeta Sandro Penna, come tanti poeti appassionato dallo sport delle due ruote. O come coloro che in dodici minuti – il tempo di aprire le prenotazioni e chiuderle – hanno comprato (10 Euro) i mille pass per assistere all’ultimo atto della tappa, pigliando la seggiovia da Sutrio (850) o da Ravascletto (150) al piazzale dell’hotel Moro, quota 1300, dove gli verrà misurata la temperatura. E’. Pur sempre tempo di Covid. Dopo, potranno continuare, ma a piedi: altri 430 metri di dislivello. Quando non c’era la pandemia, lo Zoncolan era un immenso palcoscenico affollato da centomila tifosi, che piovesse o facesse freddo. E oggi, a rendere più omerica la cornice, ancora tanta neve

Lo Zoncolan è l’esame di maturità che attende Egan Bernal, per legittimarne le ambizioni. Lui è cauto, dice solo che “sarò contento se manterrò la maglia rosa”. La classifica vede il russo Vlasov alle spalle del colombiano, staccato di 45 secondi. Seguono, a 1’12” Caruso, Cathy (1’17”), Yates (1’22”). Dieci piccoli secondi li separano, e in montagna sono un niente. Il loro non è, sulla carta, un distacco letale. Trovassero l’intesa, potrebbero mettere in crisi Bernal. Ma è difficile. Egan ha mostrato una forma esplosiva. Evenepoel, settimo, sta a 2’22”, Ciccone che in salita dovrebbe esaltarsi, è ottavo a 2’24”. Gli altri sono ormai lontani. Dovrebbero trasformarsi nel Coppi del 1949, però allora il ciclismo era più avventuroso e meno scientifico di quello odierno, dove contano i responsi fisiologici, i watt espressi in corsa, la capacità (misurata) del recupero. Un ciclismo dove è difficile l’improvvisazione. E la fantasia.

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