Per Lucia Morselli, amministratore delegato di Acciaierie Italia Spa che gestisce l’ex Ilva di Taranto, l’aria nel capoluogo ionico “è 20 volte migliore di quella di Milano. Per gli epidemiologici italiani, invece, dai dati analizzati fino a dicembre 2020, nei quartieri più vicini alla fabbrica si muore di più rispetto ad altre zone della città e alla media della Regione Puglia. E se questi ultimi dati arrivano da un lavoro scientifico presentato lo scorso 30 aprile al convegno dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, non è chiaro da quali fonti sia stato estratto il dato diffuso dalla manager italiana. Probabilmente la valutazione è formulata sulla base del numero di sforamenti di Pm10, cioè il materiale particolato con dimensione inferiore o uguale a 10 micrometri. In sostanza si tratta di polveri sottili prodotte da una serie di fonti: il traffico delle automobili, la combustione di materiali come il legno, la produzione industriale. L’origine di queste polveri, però, genera grandi differenze soprattutto per gli effetti sulla salute della popolazione.

Ecco le parole dell’ad Morselli sulle emissioni:

Una serie di studi ha già dimostrato come il problema di Taranto sia legato alla massiccia produzione industriale: la quantità di pm10 prodotta a Milano, quindi, può anche essere superiore a quella prodotta a Taranto, ma è nella tossicità la grande differenza. E nella città dell’Ilva, a differenza del capoluogo lombardo, attraverso le polveri sottili viaggiano inquinanti cancerogeni come il benzo(a)pirene. Già nel 2012, l’Ilva guidata allora da Bruno Ferrante, aveva provato a ribattere che i valori del pm 10 a Taranto “sono peraltro considerevolmente inferiori ai livelli medi annui registrati oggi in altre aree urbane del Nord Italia, come Firenze, Roma, Milano o altre numerose aree urbane e non”. Eppure, come riportato chiaramente dal sito ambientalista Inchiostroverde.it, solo un mese prima di quelle dichiarazioni, l’allora ministro della salute Renato Balduzzi durante la sua visita a Taranto aveva ribadito che “la differenza tra le polveri sottili di Taranto e quelle di altre città è proprio nella loro composizione: qui c’è un mix di inquinanti che altrove non c’è”. La relazione fornita in quell’occasione ai giornalisti chiariva ancora che “la componente che caratterizza il PM10 presente nel quartiere Tamburi è il benzoapirene, un Idrocarburo Policiclico Aromatico (Ipa), classificato come cancerogeno certo dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. È, infatti, la concentrazione in aria del benzoapirene a differenziare il quartiere Tamburi dagli altri quartieri di Taranto e dalle aree urbane italiane”.

E secondo gli studi degli esperti dell’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della Salute, è “lo stabilimento siderurgico, in particolare gli impianti Altoforno, Cokeria ed Agglomerazione” a essere individuato come “il maggiore emettitore nell’area per oltre il 99% del totale ed è quindi il potenziale responsabile degli effetti sanitari correlabili al benzoapirene”. Per andare ancora più a fondo rispetto al paragone effettuato da Lucia Morselli, basta rileggere i dati dello studio “Sentieri”, lo studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento, che ha certificato come l’esposizione a Pm10 e altre sostanze dannose come l’anidride solforosa di origine industriale “è risultata associata a un aumento della mortalità per cause naturali, tumori, malattie cardiovascolari e renali dei residenti”. Dove si produce pm10 di origine industriale, insomma, si muore di più. E che si continui a morire più che in altre zone della Regione, lo ha dimostrato ancora una volta lo studio pubblicato dal Fatto e che il sindaco Rinaldo Melucci ha depositato al Consiglio di stato chiamato a decidere se confermare o meno lo spegnimento degli impianti dell’area a caldo disposta dal primo cittadino e già avallata dai giudici del Tar di Lecce.

In questo ultimo lavoro scientifico emerge come la città sia divisa in due “cluster”. Il primo, definito “molto critico”, comprende i quartieri a nord di Taranto: Paolo VI, Tamburi e Città vecchia-Borgo, essendo quelli notoriamente più vicini e più esposti alle emissioni della zona industriale, presentano “livelli altissimi” di tassi di mortalità. Il secondo cluster, invece, comprende le zone più lontane dai camini dell’ex Ilva, ed è addirittura “esente da criticità” e “mostra persino controtendenza con un trend negativo per gli uomini”. Insomma se nel resto della città i tassi mortalità sembrano migliorare, nei quartieri più vicini alla fabbrica la situazione è in peggioramento rispetto al passato. E se qualcuno ritiene che la vicinanza non sia la prova delle responsabilità delle emissioni velenose della fabbrica, torna in soccorso, ancora una volta lo studio Sentieri: “Neoplasie, malattie cardiache, respiratorie e digerenti tendono a concentrarsi nei quartieri prossimi al polo industriale. Questa ulteriore conferma del quadro precedentemente delineato corrobora ulteriormente l’istanza di un intervento a carattere preventivo ampio e organico. In conclusione, i risultati evidenziati indicano la necessità di una sorveglianza epidemiologica della popolazione residente, garantendo contestualmente l’attuazione di tutte le misure preventive atte a tutelare la salute della popolazione residente in questo territorio, compresa l’adozione delle migliori tecniche disponibili per il contenimento delle emissioni industriali”.

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