Sin dal suo inizio, il conflitto israelo-palestinese è stato sicuramente uno dei temi più trattati dai media occidentali. Negli ultimi giorni, la situazione ha avuto un’improvvisa escalation violenta e le immagini trasmesse dalla televisione, le analisi radiofoniche, i lunghi articoli stampati sui giornali sono entrati prepotentemente a far parte della nostra quotidianità.

Ma dove sta la responsabilità di quanti fanno informazione? Sta nel fatto, evidente, spesso sfacciato, di interpretare le notizie a seconda della parte per la quale si fa il “tifo”, se possiamo usare un termine calcistico, ma assai efficace a rendere l’idea.

Ecco perché stiamo assistendo non soltanto alla “lettura” della vicenda e all’informazione oggettiva sui fatti, bensì all’uso scorretto dell’informazione stessa, con titoli dei principali quotidiani o trasmissioni televisive spesso fuorvianti, nei quali ravviso un vero e proprio schieramento delle due parti: chi con Israele, chi con la causa palestinese.

Sembra dunque che si stia combattendo, oltre al conflitto, che si svolge sul campo, una vera e propria guerra mediatica, parallela a quella reale e forse, per molti versi, ancora più dannosa: utilizzare la professione di giornalista per sostenere delle tesi personali o dire, come spesso avviene, il falso, è gravissimo.

È chiaro che occorre sempre ricordare, tuttavia, che un giornalista è anche e soprattutto un osservatore della realtà, che ha sì diritto alla sua interpretazione ma purché resti nei limiti delineati da due concetti forse oggi troppo spesso dimenticati (anche a causa dell’uso indiscriminato e volgare dei social): verità e rispetto delle opinione altrui.

E qui si apre un altro capitolo, un ulteriore campo di “battaglia”. Chi scrive qui, per esempio, per aver semplicemente esposto la propria posizione a favore della Palestina ha ricevuto un mare di insulti, spesso sessisti, con gravi offese pubbliche e minacce in privato.

Oggi il grande potere esercitato dai mass media, o meglio da chi ne detiene le redini, pone in essere alcune riflessioni di carattere linguistico, cognitivo e semantico: in primo luogo la questione da dirimere riguarda la condivisione dei codici, dei sottocodici e la conseguente interpretazione critica o passiva del messaggio veicolato. Tale processo conduce poi ad altre considerazioni, come quelle inerenti alla manipolazione mediatica dell’opinione pubblica attuata attraverso la propaganda.

L’informazione, e con essa la comunicazione tout court, devono essere libere oltreché conformi al reale e soprattutto coscienti dell’immenso potere che possono esercitare in diversi contesti e nei confronti dei diversi pubblici.

Forse dovremmo fare tutti un passo indietro ed invece di schierarci da una o l’altra parte trovare una soluzione anche attraverso la comunicazione, mettendoci sempre e solo dalla parte delle vittime. Continuare a istigare attraverso una guerra mediatica sicuramente non giova a nessuna delle parti in conflitto.

La comunicazione è un’arma che troppo spesso può capitare in mani poco accorte per usare un eufemismo. Il rischio è più concreto nell’epoca in cui Internet ha catalizzato, amplificandola esponenzialmente, la partecipazione, la condivisione e la creazione di contenuti mediatici, abbattendo di fatto le barriere tecniche, sociali ed economiche che dividevano, fino a poco tempo fa, gli operatori dagli utenti, i producer dai consumer.

Una comunicazione completa, esaustiva, super partes e libera da influenze di vario genere crea una sana informazione; una comunicazione volutamente rimaneggiata, faziosa o guidata da altre tipologie di interessi, siano essi economici o politici, provoca aberranti mostri comunicativi, non informazione, ma solo una versione rimaneggiata e mistificata della realtà.

Non possiamo accettare tifoserie in questi drammatici giorni in cui si contano tante vittime sia dall’una che dall’altra parte. Non è un derby ma una tragedia di proporzioni apocalittiche, che non sembra attenuarsi con il passare delle ore e più che mai sarebbe necessario un intervento politico prima che sia troppo tardi.

Dobbiamo lavorare sull’influenza degli Stati membri dell’Onu per avere un’immediata azione politica, ma in questo momento noi operatori dell’informazione abbiamo più che mai la responsabilità di raccontare i fatti attenendoci sempre alla verità obiettiva e senza schieramento. Con l’unico obiettivo certo: ristabilire la pace in un’area in cui la stessa parola ‘pace’ manca da troppo tempo.

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