di Giuseppe Augurusa*

Ogni giorno poco meno di 110mila lavoratori attraversano i confini del nostro paese con i nove Stati limitrofi (Principato di Monaco, Francia, Svizzera, Austria, Slovenia, Croazia, San Marino, Città del Vaticano e Malta), per recarsi a lavoro: i cosiddetti frontalieri.

Si tratta perlopiù di lavoratori residenti in Italia (85%) che prestano la propria attività in un paese estero, in ossequio al principio della libera circolazione delle persone che, applicato nell’Unione europea e nello Spazio economico europeo (See), consiste nel diritto di recarsi in un altro Stato membro per lavorarvi o cercarvi lavoro. Si tratta quindi di paesi di destinazione sia Ue che extra Ue, con i quali vigono apposite intese bilaterali sull’imposizione fiscale secondo le prescrizioni della convenzione Ocse contro le doppie imposizioni.

Lavoratori, quindi, che fanno ritorno nel paese di residenza di norma una volta al giorno, secondo la definizione prevista dal regolamento di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale 883/2004 (ai sensi dell’articolo 1 del regolamento n. 883/2004, per lavoratore frontaliero si intende “qualsiasi persona che esercita un’attività subordinata o autonoma in uno Stato membro e che risiede in un altro Stato membro, nel quale ritorna in linea di massima ogni giorno o almeno una volta la settimana”).

Una modalità antica, quella del lavoro frontaliero: se ne ritrovano tracce ben prima del Novecento nei tanti spazi economici virtuosi, nei traffici del contrabbando, negli imponenti fenomeni migratori di corto raggio (prosecuzione di migrazioni interne agli Stati), a ridosso delle molte frontiere internazionali. Oggi in Europa si contano oltre 1,5 milioni di frontalieri sui 17 milioni di lavoratori mobili, sorpassati solo negli ultimi anni dai lavoratori distaccati transnazionali, attestati nello spazio economico europeo ad oltre 2,5 milioni. Questi ultimi in crescita costante e continua, verosimilmente in ragione dell’estrema flessibilità del rapporto di lavoro, degli “spazi” interpretativi di una norma mutuata dal diritto commerciale prima che da quello del lavoro, nonché di una giurisprudenza non ancora consolidata che presta il fianco a fenomeni diffusi di dumping salariale.

I frontalieri sono quindi quotidianamente sottoposti a due ordinamenti: quello del paese d’origine e quello del paese di lavoro che, tra le altre questioni relative a diritti e doveri di cittadinanza, riguardano temi quali il mercato del lavoro, la previdenza, il fisco, la sicurezza sociale. Una condizione particolare che determina così l’interlocuzione con due autorità, moltiplicando, per questa via, le difficoltà di esigibilità di alcuni diritti che pur l’Europa sancisce.

In spregio alla percezione diffusa secondo cui i frontalieri rappresenterebbero una nicchia di privilegio (in larga parte, soprattutto nel caso svizzero, legato agli alti salari medi, percezione che tuttavia ignora tanto lo scambio tra cospicui salari e scarsi diritti quanto l’imponente fenomeno del dumping salariale), sempre più spesso ci troviamo di fronte a iniziative autonome degli Enti nazionali volti a ridurre l’accesso a taluni diritti, benefici e sussidi sulla base di interpretazioni nazionali restrittive, rese cioè esclusive sul criterio della residenza, in netto contrasto con i principi della libera circolazione. Così, accade che elementi accessori della retribuzione, detrazioni, permessi, assegni familiari (stessa sorte toccherà con tutta evidenza all’assegno unico familiare in vigore dal luglio prossimo per i frontalieri in ingresso nel nostro paese), benefici sull’imponibile fiscale, accesso al mercato del lavoro, siano sempre più oggetto di interpelli, istanze, quando non a lunghi ed incerti contenziosi.

È idea che la soluzione passi attraverso la copertura di un evidente vuoto normativo su cui, da anni, tanto le organizzazioni sindacali quanto gli organismi di rappresentanza dei cittadini all’estero – in primis il Cgie (Consiglio Generale degli Italiani all’Estero, organismo di consulenza del Governo e del Parlamento sui grandi temi che interessano le comunità italiane all’estero) – s’interrogano sulla necessità di coprire, al fine di risolvere alla fonte le tante questioni interpretative che affliggono il lavoro transfrontaliero.

A tal proposito, nell’autunno scorso come Cgil abbiamo presentato unitariamente a Cisl e Uil, alle commissioni riunite di Trasporti e Lavoro della Camera dei Deputati una proposta di legge dall’evocativo nome di “Statuto dei lavoratori frontalieri”. Un testo che si sostanzia di 5 articoli e che affronta i temi: della parità di trattamento, del dialogo sociale transfrontaliero, della ricognizione degli accordi bilaterali (un terzo dei paesi in questione non sono nell’Unione Europea), nonché dell’istituzione di un osservatorio nazionale capace di qualificare e quantificare il fenomeno.

Cambiato ancora una volta, nel frattempo, il Governo, contiamo fiduciosi di poter finalmente aprire la discussione in occasione dell’imminente avvio del tavolo interministeriale, a seguito degli impegni assunti con le organizzazioni confederali dal Mef a dicembre scorso, in occasione del memorandum d’intesa che ha accompagnato il nuovo trattato internazionale sull’imposizione fiscale dei frontalieri in Svizzera (73%).

*Dirigente sindacale, responsabile nazionale dei lavoratori frontalieri e distaccati transnazionali per la Cgil; amministratore pubblico, sassofonista appassionato di musica jazz. Scrittore, ha pubblicato per Minerva Edizioni Il canto delle cicale (2013) e Il secondo cittadino (2019).

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