Non il primo, non l’ultimo, ma sicuramente il più importante del nuovo millennio. Il corpo senza vita di Osama bin Laden è il trofeo più prestigioso che l’amministrazione americana ha potuto appendere alla sua nutrita bacheca dove si trovano in bella vista altri terroristi, dittatori o presidenti stranieri che hanno osato sfidare Washington.

La difficoltà degli Stati Uniti, però, non è (quasi) mai stata quella di mettere nel mirino il nemico pubblico numero uno ed eliminarlo. È successo con i governi del Centro e del Sud America durante la Guerra Fredda e, più recentemente, con le uccisioni di dittatori come Saddam Hussein, terroristi come Abu Bakr al-Baghdadi o capi militari di Paesi considerati nemici come Qasem Soleimani.

Ciò in cui gli Usa hanno spesso fallito è stato cercare di garantire alle popolazioni dei Paesi dove sono intervenuti un futuro di pace dopo la destabilizzazione delle offensive militari. A dieci anni di distanza dall’operazione ad Abbottabad, in Pakistan, e a quasi venti dagli attentati dell’11 settembre, possiamo dire senza timore di essere smentiti che l’uccisione del fondatore di al-Qaeda non rappresenta un’eccezione.

L’eliminazione dello ‘Sceicco del Terrore’, il motivo per cui Washington aveva lanciato la guerra al terrorismo in Afghanistan, doveva rappresentare il punto di svolta per la rinascita del Paese. Ciò che oggi possiamo concludere, invece, è che gli Usa e la coalizione Nato si stanno ritirando lasciandosi dietro un territorio in gran parte sotto il controllo dei gruppi Taliban che, nonostante gli accordi stipulati, si guardano bene dal deporre le armi.

Oltre a una popolazione sempre più provata da un conflitto che va avanti ininterrottamente, con attori diversi, dal 1979, anno dell’invasione sovietica. La ‘Tomba di tutti gli Imperi’ si è rivelata tale anche per le amministrazioni americane che si sono succedute in questi venti anni. “Le ragioni per rimanere sono diventate sempre meno chiare dopo la morte di Osama bin Laden. Non possiamo rimanere in attesa di una conclusione diversa”, ha dichiarato Joe Biden facendo (involontariamente?) capire che per Washington un Afghanistan stabile non rappresenta una priorità.

Un epilogo simile a quello dell’Iraq, dove alla caduta di Saddam Hussein, voluta a tutti i costi da George W. Bush nel nome anche della sua strategia della “esportazione della democrazia”, è seguita una “ricostruzione” che non ha tenuto conto delle diverse anime presenti nel Paese, contribuendo a favorire la nascita di nuovi gruppi estremisti come al-Qaeda in Iraq di Abu Musab al-Zarqawi e successivamente dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

Proprio il defunto leader dell’Isis, eliminato durante l’amministrazione Trump che ha usato quell’uccisione per dichiarare definitivamente “sconfitto” il gruppo terroristico, è un altro esempio di come, una volta caduto il Califfato e ucciso il suo fondatore, gli Stati Uniti abbiano dato inizio a una strategia di ritiro dalla Siria che ha lasciato il Paese in mano all’asse Putin-Assad, alle ambizioni di conquista a nord da parte della Turchia e con le cellule dormienti delle Bandiere Nere pronte a riprendere terreno, contrastate esclusivamente dalle Forze democratiche siriane a maggioranza curda.

Ma al-Baghdadi non è l’unico ‘trofeo’ esibito nei quattro anni di amministrazione Trump. L’altro nome altisonante è quello dell’ex capo delle Forze Quds delle Guardie della rivoluzione iraniane, Qasem Soleimani, ucciso con un raid mirato durante una trasferta nel vicino Iraq. Un’azione motivata, dopo la rottura dell’accordo sul nucleare da parte di Washington, con l’esigenza di eliminare colui che, secondo l’amministrazione Trump, stava progettando un imminente attacco contro gli Stati Uniti. Le prove di questo piano non sono mai emerse e l’azione non ha fatto altro che portare i rapporti tra Usa e Iran, migliorati durante l’amministrazione Obama, al limite dello scontro armato. E fornire al presidente di turno l’ultimo grande trofeo di caccia da appendere nella bacheca Usa.

Twitter: @GianniRosini

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