La notizia è comparsa stamattina sulle colonne del Quotidiano del Sud ed è di quelle che fanno tremare gli ambienti della ‘ndrangheta calabrese, soprattutto la zona grigia, quella camera di compensazione dove siedono allo stesso tavolo mafiosi, politici, imprenditori, massoni e pezzi deviati dello Stato. Con tutti ha avuto a che fare il boss di Cutro Nicolino Grande Aracri che ha deciso di collaborare con la giustizia. L’ergastolano, mammasantissima del crotonese, si è pentito e da un mese sta facendo dichiarazioni ai pm della Dda di Catanzaro, guidati dal procuratore Nicola Gratteri. Al momento c’è il massimo riserbo sulle prime rivelazioni del boss, capo indiscusso della Provincia criminale di Crotone e principale imputato del processo “Kyterion” nell’ambito del quale è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del capo cosca Antonio Dragone.

Di omicidi ed ergastoli, in realtà, ne ha diversi Nicolino “Mano di gomma” che ha esportato la ‘ndrangheta al Nord Italia come si è visto nel maxiprocesso “Aemilia”. La cosca di Cutro non si limitava, infatti, al solo territorio crotonese. Piuttosto l’influenza di “Mano di gomma” si estendeva nella Sibaritide, nella zona di Catanzaro e del Vibonese. Tentacoli mafiosi lunghi fino in Emilia Romagna dove i Grandi Aracri rivendicavano autonomia pure rispetto alle cosche reggine. Dalle indagini degli ultimi anni, inoltre, sono emersi gli affari anche in altre regioni come la Lombardia e il Veneto.

“A me mi servono i cristiani buoni, mi servono… mi servono avvocati, ingegneri, architetti”. Un’intercettazione registra la sua voce mentre sintetizza il “Grande Aracri pensiero”. Le mani del boss non erano solo macchiate di sangue ma puzzavano di soldi sporchi e riciclati attraverso colletti bianchi, professionisti, imprenditori il più delle volte gravitanti nella massoneria. Secondo gli inquirenti, don Nicolino Grande Aracri poteva vantare entrature nei palazzi che contano: compresi il Vaticano e la Corte di Cassazione. Se da una parte è vero che non è stato mai accertato il coinvolgimento di un magistrato, dalle carte sulla cosca di Cutro è emerso come il boss ha cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare una sentenza del Tribunale del Riesame di Catanzaro.

I soldi non erano un problema per il mammasantissima oggi collaboratore di giustizia. Per capire il suo calibro e soprattutto le potenziali sue rivelazioni è sufficiente guardare nelle pieghe delle inchieste in cui è stato coinvolto. Le perquisizioni del 2015, eseguite dai carabinieri nell’ambito dell’inchiesta “Kyterion 2”, hanno fatto emergere un conto corrente con la disponibilità di 200milioni di euro. Era la cassaforte del boss dove la Dda ha trovato una “fideiussione finalizzata (almeno in un caso) all’aggiudicazione di un appalto milionario, per la costruzione di appartamenti in Algeria”. Il boss voleva partecipare all’affare della costruzione di più di mille alloggi e per farlo era necessaria una “fidejussione bancaria di 5 milioni di euro, a garanzia del contratto”. Non c’era affare a cui “Mano di gomma” non era interessato. Le intercettazioni lo descrivono quasi come il ministro delle Infrastrutture della ‘ndrangheta. “Facciamo la doppia corsia, la Freccia, la Frecciarossa facciamo, treni per l’Alta velocità”. “Gli ho detto va bene”. All’interno della tavernetta della sua abitazione don Nicolino pensava in grande: era arrivato a un passo da quello che mai nessun governo è riuscito a realizzare: l’Alta velocità da Roma a Reggio Calabria che avrebbe risolto i problemi di molti pendolari.

Il condizionale è d’obbligo perché qualcosa non ha funzionato per il verso giusto rovinando i piani del capocosca: “Questi cornuti qua, i reggitani non hanno voluto” racconta Nicolino Grande Aracri che, sulla Tav, aveva avuto l’ok di tutti i clan. “Praticamente ci eravamo messi d’accordo”. Il boss parla e gli investigatori annotano: “Con quelli ‘di Reggio’ dice ‘veditela tu’. ‘Facciamo treni per l’Alta velocità’ mi ha detto, gli ho detto ‘va bene, ne parliamo, datemi un mese di tempo’”. In quel mese, quindi, Nicolino Grande Aracri raccoglie i pareri delle famiglie mafiose: “Ho messo d’accordo a tutti, da Roma a Napoli li ho messi d’accordo, da Napoli a Salerno li ho messi d’accordo e da Salerno fino a Catanzaro ho messo d’accordo a tutti. Da Catanzaro a Reggio Calabria…”. Proprio nella provincia considerata la culla della ‘ndrangheta, l’opera di mediazione del boss di Cutro si scontra con lo “stop” delle famiglie reggine: “Mi ha detto ‘no’, quando viene ce la vediamo noi e così e colà… dice che loro comandano e sono stati scavalcati”.

In quell’occasione le cosche reggine hanno fatto infuriare Nicolino Grande Aracri (“Quattro cornuti abbiamo là! Quattro vecchi rimbambiti”) e ha tentato di convincere i boss di Reggio offrendosi come mediatore tra loro e chi si sarebbe occupato dell’appalto: “Ma dimmi un poco, ma voi quanto volete qua? Il 3%, il 2% che ve li do, qual è il problema? Anzi, non rischiate nemmeno la galera, ve li do io i soldi”. Per la ‘ndrangheta di Reggio Calabria evidentemente non è una questione economica: “Hanno preso e non hanno accettato”. Mafiosi, politici e “cristiani buoni”, adesso rischiano di finire nelle dichiarazioni che il pentito Nicolino Grande Aracri sta mettendo a verbale. Ancora è presto per capire il terremoto giudiziario che potrebbe provocare nei prossimi mesi la sua collaborazione con la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Di certo, però, in molti avrebbero sperato che “Mano di gomma” si facesse l’ergastolo da boss, in silenzio.

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