La legge contro l’omotransfobia è tenuta in ostaggio (di nuovo) dal centrodestra. Il ddl Zan, approvato dalla Camera a novembre scorso, aspetta da settimane di iniziare il suo percorso al Senato. Ma il cambio di maggioranza e l’arrivo del governo Draghi rischia di bloccare un provvedimento atteso da anni e che, per la prima volta, potrebbe avere i numeri per essere approvato in Parlamento.

A bloccare il testo, impedendone addirittura la discussione, è il presidente della commissione Giustizia del Carroccio Andrea Ostellari: il leghista sta rimandando la calendarizzazione con la motivazione che “la legge non è una priorità” per l’esecutivo. Lega e Fratelli d’Italia si oppongono da sempre, mentre Forza Italia segue gli alleati della coalizione con scarso entusiasmo. Dopo il rinvio della settimana scorsa, oggi c’è stato un nuovo bivio: Ostellari ha chiesto che prima siano congiunti gli altri 4 ddl sull’omotransfobia presentati a palazzo Madama e di chiedere la sede referente è stata accettata all’unanimità dall’ufficio di presidenza. I partiti hanno votato all’unanimità per cercare di sbloccare la situazione: “Speriamo che non ci siano più scuse”, ha detto il dem Franco Mirabelli. Ora la parola spetta alla presidente di Palazzo Madama Elisabetta Casellati (Fi) che dovrà convocare l’ufficio di presidenza e decidere i tempi.

Del resto la sorte del ddl Zan sembrava segnata: l’ennesimo provvedimento bandiera sui diritti (uno dei pochissimi di questa legislatura) finito nei cassetti del Parlamento. Ma questa volta archiviarlo non sarà così semplice e la nuova congiuntura politica potrebbe paradossalmente aiutare. La coalizione giallorossa Pd-M5s-Leu infatti, quella sopravvissuta alla fine traumatica del Conte 2, sta reggendo (oltre ogni aspettativa) e sta sostenendo compatta il testo. La battaglia sull’omotransfobia potrebbe essere il primo vero strappo della maggioranza Draghi, ma sia centrodestra che il centrosinistra hanno interesse ad andare fino in fondo. E soprattutto, negli ultimi giorni, ha cominciato a mobilitarsi anche l’opinione pubblica grazie ad alcuni artisti che hanno deciso di esporsi e prendere la parola. La prima a rompere il silenzio è stata la cantante Elodie, poi a seguire decine di colleghi: da Fedez a Michele Bravi, Mahmood, la Rappresentante di lista e Levante. E proprio questa potrebbe essere la svolta: se il provvedimento trova sostegno fuori dal Parlamento, sarà difficile bloccarne la discussione ancora a lungo.

La legge: da dove viene e cosa prevede – Il ddl Zan ha ricevuto il primo via libera il 4 novembre scorso a Montecitorio con 265 Sì e 193 No. Il disegno di legge (qui il testo) è nato da un’iniziativa parlamentare: porta il nome del relatore Pd Alessandro Zan, ma prende spunto da diverse proposte di legge di deputati di Leu, Pd, M5s e addirittura Forza Italia. La prima proposta risale al 1996, quando a portarla in Parlamento fu l’allora deputato di Rifondazione comunista Niki Vendola. Nel 2013 ci riprovò Ivan Scalfarotto, ma anche lui senza fortuna. Intanto chi è riuscito a fare qualche passo avanti sono state le Regioni: nel 2004 la prima a introdurre una legge “contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” è stata la Toscana, poi seguita da Marche, Liguria e Umbria. A luglio 2019 a seguire l’esempio è stata l’Emilia-Romagna a guida Pd (non senza difficoltà e resistenze interne). Nel Lazio un provvedimento simile sta affrontando “gli ultimi metri” e potrebbe essere approvato a breve. Norme di questo tipo sono già previste in Europa (ad esempio in Francia e Spagna) e il Parlamento Ue solo a marzo scorso si è dichiarato zona libera per le persone Lgbtqi e ha condannato gli Stati che ancora permettono le discriminazioni.

Ma cosa prevede concretamente il ddl Zan? Il provvedimento estende le fattispecie di reato coperte dall’articolo 604 bis del codice penale, introdotto dalla legge Mancino nel 1993: oltre alla punibilità della “propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa”, si aggiungono i motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità“. Quindi “chi istiga o commette i precedenti atti di discriminazione” rischia “la reclusione fino 18 mesi o una multa fino a 6.000 euro”; chi invece “istiga o commette violenza per gli stessi motivi”, rischia da 6 mesi a 4 anni di carcere, così come chi “partecipa o aiuta organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per gli stessi motivi”. Inoltre, per qualsiasi reato commesso per le finalità di discriminazione o di odio si estende l’aggravante speciale prevista dall’articolo 604-ter e la pena viene aumentata fino alla metà. Il condannato può ottenere la sospensione condizionale della pena se presta un “lavoro in favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati”.

Il disegno di legge, nella seconda parte, si concentra anche sulla prevenzione delle discriminazioni. L’articolo 7 istituisce per il 17 maggio (come avviene già in tutto il mondo) la giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia: una giornata dedicata alla “promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione nonché al contrasto dei pregiudizi, delle discriminazioni”. Una iniziativa di sensibilizzazione rivolta anche alle scuole, ma sempre in rispetto del “piano dell’offerta formativa” e del “patto educativo di corresponsabilità” (e quindi in accordo con dirigenti e genitori). Infine la legge stabilisce l’elaborazione con “cadenza triennale di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni“, da affiancare a una rilevazione statistica e da sostenere con finanziamenti ad hoc.

La clausola “salva idee” e la fake news sulla limitazione della libertà di pensiero – Una delle accuse che viene fatta più spesso al provvedimento, da parte del centrodestra in particolare, è che con questa legge si vogliano “punire le idee”. La contestazione però non trova fondamento concreto con quanto previsto dal disegno di legge. Senza considerare che, nel passaggio alla Camera, è stata introdotta la cosiddetta “clausola salva idee” proprio per rispondere a queste critiche e cercare un sostegno trasversale. All’articolo 4 del ddl si legge infatti: “Sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Quindi a essere punito è solo chi commette atti discriminatori o di violenza e chi istiga a commettere tali atti, non certo chi esprime le proprie opinioni. Solo a ottobre scorso, proprio a Montecitorio, si è esposta la deputata Fi Giusi Bartolozzi: “Invito a una discussione seria, questa è una legge giusta e di buon senso che nulla ha a che vedere con la limitazione della libertà di pensiero“, ha detto. Non la pensano così i suoi compagni di coalizione che invece lanciano allarmi su “l’imposizione della teoria gender” e la presunta “impossibilità di esprimere le proprie opinioni se la legge verrà approvata”.

Gli schieramenti: gli attacchi (non solo da destra) e l’asse Pd-M5s-Leu sostenuto dalla mobilitazione degli artisti – In prima fila a opporsi all’approvazione della legge, non è una novità, c’è l’asse compatto di Lega e Fratelli d’Italia. A loro fanno riferimento i vari gruppi che gravitano intorno al Family day, come l’associazione antibortista e no gender Pro Vita e Famiglia onlus. L’estate scorsa poi, tra i primi a far sentire la loro voce ci sono stati anche i vescovi. La Conferenza episcopale italiana è intervenuta con una lettera aperta per dire che “una legge non serve perché l’ordinamento giuridico ha già norme che combattono le discriminazioni, anche quelle di genere”. Ma non solo, proprio come i più agguerriti nel centrodestra, la Cei ha attaccato: “Un’eventuale introduzione di ulteriori norme incriminatrici rischierebbe di aprire a derive liberticide“. Parole che ha fatto proprie il senatore leghista Simone Pillon, già autore del controverso disegno di legge sull’affido condiviso, e da sempre promotore di posizioni contro la comunità Lgbtqi. E’ stato Pillon il primo a esultare qualche giorno fa per i successi dell’ostruzionismo e il suo attivismo in commissione Giustizia potrebbe contribuire al naufragio definitivo del progetto.

Il fronte del centrodestra però, non è così compatto come sembra. L’anello debole è Forza Italia e questo potrebbe cambiare qualche equilibrio. Già a Montecitorio ci sono stati cinque voti a favore del testo (Bartolozzi, Polverini, Prestigiacomo, Vito e Perego) e in commissione si astennero (salvo poi allinearsi tra i contrari in Aula). “Conoscendo la sua storia e la sua sensibilità”, ha scritto Vito su Twitter qualche giorno fa, “immagino che Berlusconi non possa che essere favorevole“. Basta? No, ma è un segnale da tenere presente.

Se il gruppo dei contrari deve fare i conti con le defezioni di qualcuno tra gli azzurri, il centrosinistra ha ricevuto le critiche delle cosiddette femministe Terf, ovvero trans escludenti. Si tratta di una parte minoritaria delle femministe che si riconosce principalmente in ArciLesbica, e che contesta l’uso del concetto di “identità di genere”, inteso come “l’identificazione percepita e manifestata di sé” a prescindere dal sesso. Questa definizione, dice Arcilesbica, penalizzerebbe le donne. E andrebbe sostituita con “transessualità”. “Noi non vogliamo bloccare il ddl Zan, ma eliminare gli errori che contiene”, si legge in una nota. “La legge serve, ma senza questi emendamenti si rischiano gravi guasti”. Una linea non condivisa dalla maggioranza dei movimenti femministi: la rete transnazionale di Non una di meno è tra le sostenitrici del ddl e su Repubblica a luglio scorso è stata pubblicata una dichiarazione congiunta di 58 tra attiviste e intellettuali che difendono il provvedimento. “Il testo che abbiamo letto e analizzato”, scrivono le femministe, “ci sembra non minacci l’esistenza di nessuna, che ampli anzi le forme di protezione da discriminazione e violenza a tutte le soggettività riconosciute”.

Chi promuove il ddl Zan è l’asse Pd-M5s-Leu (con l’aggiunta, per questa volta in linea, di Italia viva). A muoversi sono soprattutto i parlamentari del fronte democratico e di Leu, ma anche 5 stelle. Tra i leader ha già parlato più volte Enrico Letta che, in quanto neosegretario Pd, ha ribadito come il suo partito intende sostenere fino in fondo il provvedimento. Tacciono invece i vertici 5 stelle: il Movimento vive una fase di grande rifondazione interna e al momento non è in programma che il neo leader Giuseppe Conte si esprima pubblicamente sui temi. Resta il fatto che proprio la tenuta dell’asse giallorosso è uno dei cardini sia della strategia di Letta che di Conte e sui diritti nessuno dei due partiti intende tirarsi indietro per primo.

Intanto una forte spinta sta arrivando inaspettatamente dall’esterno. Il 26 febbraio scorso Gaynet ha diffuso il video dell’aggressione ai danni dell’attivista Jean Pierre Moreno mentre si baciava con il compagno in metropolitana a Roma. Un episodio che ha fatto molto rumore e aiutato a riportare l’attenzione sul tema. A questo è seguita pochi giorni dopo la presa di posizione della cantante Elodie che, tramite le sue stories su Instagram, ha attaccato Pillon e i leghisti definendoli “omotransfobici” e “indegni” di stare in Parlamento. In sostegno delle sue dichiarazioni si è mosso Fedez che ha organizzato una diretta Instagram con il deputato Zan. Insieme a Chiara Ferragni ha rilanciato la petizione lanciata su Change.org da Francesco Lepore, giornalista e capo redattore del sito Gay News Italia, e in soli tre giorni sono state superate le 250mila firme. Ecco, proprio la mobilitazione degli artisti e dell’opinione pubblica potrebbe fare la differenza questa volta: Carroccio e Fratelli d’Italia possono (per un po’) bloccare una legge anche se ha l’appoggio della maggioranza in Parlamento, fanno più fatica se fuori dalle Camere si chiede di andare avanti.

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