Oggi, domenica 4 aprile, a Pasqua, Francesco De Gregori compie settant’anni. Settanta tondi tondi. Auguri! Quello che dirò forse lo lusingherà, o forse gli farà storcere il naso: per chi, come il sottoscritto, sta dedicando una vita a studiare e cercare di capire meglio quella che – per brevità – possiamo chiamare “canzone d’autore”, Francesco De Gregori è un rivoluzionario vero. So bene che certe espressioni sembrano oramai abusate; ancor di più in uno scritto tutto sommato celebrativo. Ma De Gregori ha fattivamente cambiato il modo di intendere la canzone in Italia dagli anni Settanta in poi. Vediamo perché.

Dopo i Sessanta, e dopo che i genovesi avevano fatto capire che anche in Italia con la canzone si poteva fare qualcosa in più dell’intrattenimento, il nostro Paese vive la stagione aurea della canzone d’autore. I cantautori vengono percepiti – a torto, ma qui importa poco – come i nuovi poeti. Il tutto però succede dentro l’alveo di un realismo imprescindibile, rigorosamente portavoce di messaggi sociali. De Gregori introduce un linguaggio musical-letterario che scardina la pretesa colloquialità comunicativa di chi voleva la canzone come un manifesto politico, un tazebao di protesta: per lui la canzone è quintessenza evocativa, anzitutto, e non abbandona mai la sua natura di oggetto estetico.

Le rime, le figure retoriche, i tripli fondi e i campi semantici del suo dettato testuale formano un armamentario imprescindibile, le canzoni comunicano da inconscio a inconscio e, come scrive bene Enrico Deregibus, la “parte conscia dell’autore e quella conscia dell’ascoltatore sono due tappe, importanti finché si vuole, ma assolutamente intermedie”. Mutua Bob Dylan, certamente, come riconoscono tutti, ma un Dylan finalmente compreso fino in fondo, non solo quello della rivolta beat della prima metà dei Sessanta. De Gregori centra l’essenza di Dylan, quella della canzone come gesto irrimediabilmente estetico, quello di Newport, quello che tu cerchi nella ripetizione di se stesso, e che invece si trova già da un’altra parte.

Quando in Italia arrivano Alice, Rimmel, Bufalo Bill, arriva la poetica dello svisamento dalla norma, non solo dell’apparente incomprensibilità dei testi, che i più distratti a quel punto chiamano incautamente “ermetismo”, senza nessuna giustificazione storica. Arriva quel chitarrismo storto nella scrittura, con canzoni fatte per vivere negli arrangiamenti, la cui musica significa spesso in maniera inaspettata in certi particolari cambi di accordi, e la cui dinamica armonica si fa epica e lirica a un tempo. Una dinamica spesso inusuale, almeno per i tempi e per la normalità degli altri cantautori.

Fabrizio De André, che dopo l’album “Storia di un impiegato” del 1973, per sua ammissione attraversava un periodo di crisi creativa – lo so, “periodo di crisi creativa” e “De André” nella stessa frase sembrano formare un paradosso: la storia della musica a posteriori presenta concetti incredibili –, dopo l’incontro con De Gregori e la frequentazione con quel ragazzo poco più che ventenne cambiò decisamente il suo stile. Tutte le cose scritte qui sopra De André le intuì prima di chiunque altro. E prima degli altri le esaltò. Ascoltate una canzone come Oceano, contenuta in “Volume 8”, il disco che scrissero a quattro mani. È tutto lì. L’approdo, l’ultima canzone dell’album, Amico fragile, probabilmente non sarebbe stata così senza l’incontro con De Gregori.

Come ho avuto modo di scrivere in un altro mio post, per ciò che riguarda il contenuto, una cosa che mi è sempre piaciuta molto nelle canzoni di De Gregori è la responsabilità della scelta, l’etica che sottende i brani e la sua poetica; fa sua la lezione del Pasolini de Le ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”. Troppo potente e sottile per essere compreso del tutto negli anni Settanta: da lì, forse, deriva il processo del Palalido di Milano. Francesco De Gregori dimostra di avere un importante senso civico e una fiducia complessa ma ferma nelle istituzioni democratiche, che sottende l’etica dell’operare in luce, nella proposizione di qualcosa di costruttivo dopo il rifiuto.

Sono istanze che il cantautore romano prosegue coerentemente anche negli anni Ottanta, prendendoli contromano. In “Titanic” (1982) ci sono canzoni che parlano dell’Italia che sta andando a sbattere contro un iceberg, mentre tutt’intorno si celebrano la Milano da bere, Drive In, il rampantismo. “Titanic”, “Scacchi e tarocchi” (1985), “Terra di nessuno” (1987), “Mira Mare 19.4.89” (1989), “Canzoni d’amore” (1992) disegnano un percorso preciso in cui una Cassandra come sempre inascoltata prefigura lo sfacelo. Il disco del 1992, a ridosso della deflagrazione di Tangentopoli, è semplicemente la fenomenologia dell’inevitabile.

Ecco perché i settant’anni di uno come De Gregori non sono un evento qualsiasi. Ecco cosa intendevo all’inizio quando dicevo che è stato davvero rivoluzionario. Auguri. E grazie.

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