Mettiamo subito le cose in chiaro: questa non vuole essere una recensione dell’ultimo disco Francesco De Gregori, Vivavoce, che – tranne per alcune canzoni – ritengo essere opera nel complesso artisticamente trascurabile. Qui semplicemente, partendo proprio da Vivavoce, intendo ragionare sul modo che ha De Gregori di intendere la canzone, perché ho il sospetto che questo ci faccia capire molto sulla sua poetica.

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Nel disco il cantautore romano propone 28 suoi pezzi arrangiati in maniera diversa – a volte estremamente diversa – dalla versione originale. Non è certo la prima volta che De Gregori fa un’operazione del genere, perché lui ama “movimentare” le canzoni, giocare con la musica, anche al limite del fastidio per chi è abituato alle versioni delle prime pubblicazioni. Come leggiamo nell’articolo proprio qui sul Fatto, ecco cosa ci dice l’autore stesso sul suo ultimo disco: «Io non vado a casa di quelli che conservano Rimmel o La donna cannone sotto al cuscino e glieli sostituisco di nascosto: Vivavoce è solo musica in più». Musica in più. Ci può stare.

Credo che con nessun artista, come con De Gregori, si capisca bene (anche se “in controluce”) cos’è la canzone d’autore: il trittico voce (quindi testo, parole e modo di essere date)–melodia–armonia. Stop. La media ponderata esatta di tutte le potenzialità espressive di una canzone ne descrive la sua essenza, la sua bellezza che spesso è data dalla sua resistenza all’usura del tempo.

La prima versione pubblicata di un brano può essere importante, perché probabilmente quella performance è la più vicina al momento creativo. Ma ci sono strutture di canzoni che chiamano suoni lontanissimi nel tempo – tanto nel passato, quanto nel futuro –, e spesso il vestito che indossano nell’album del loro esordio non è che moda del momento o compromesso mediatico non eccessivamente straniante.

Francesco De Gregori sembra che si diverta a “sporcare” la versione originale dei brani. Presumibilmente questo dipende dal fatto che per lui una canzone non ha proprio versione originale, ma semplicemente una linea strutturale che ne testimonia la potenza. In questo senso, sottrarre un brano dalle grinfie dell’evocazione vuol dire salvarlo dalle etichette della storia. Alcune resistono, altre vengono sbriciolate.

Si prenda l’esempio di Un guanto, presente in Vivavoce. Certi passaggi di quella canzone, cantati in quel modo, appiattendo la melodia, di per sé non significano niente.

La versione originale (Prendere e lasciare, 1996) ne testimonia il Dna nell’esistenza di una linea melodica precisa, anche se eccessivamente legata alla successione armonica; quella di Vivavoce vale solo in riferimento al nostro ricordo dell’originale.

Ma ascoltiamo invece Il ’56 : è perfettamente a proprio agio nel twist, che subito appare coerente visto il titolo (il twist è nato nella seconda metà degli anni Cinquanta), ma – ed è la cosa più interessante – che soprattutto celebra le potenzialità espressive della stessa canzone, aggiunge vitalità e ne esalta la grandezza strutturale.

Vero è che spesso le versioni riarrangiate di molte canzoni di De Gregori risultano inascoltabili, ma questo è paradossalmente poco importante. Togliete dalle mani di De Gregori quelle canzoni – dico io – ma salvaguardatene l’approccio: quello di chi ha capito cosa vuol dire scrivere canzoni senza tempo.

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