“Conoscevo bene la polizia slovena, ero già stato respinto anche da loro. Ho riconosciuto le loro uniformi fuori dal furgoncino su cui viaggiavo. Ho gridato ‘siamo in Slovenia, ci avete riportato in Slovenia’. Il poliziotto italiano allora mi ha preso per mano e mi ha detto ‘tu scendi per primo’”. Quando ancora non era stato spinto sul furgoncino che lo avrebbe riportato oltre il confine sloveno Faisal (nome di fantasia) credeva che in Italia sarebbe stato “al sicuro”. Ne era convinto lui e lo erano anche i suoi compagni di viaggio, uomini con cui aveva condiviso gran parte dei giorni sulla rotta balcanica. L’Italia, secondo le informazioni raccolte, era il primo vero spiraglio di Unione europea, il posto giusto in cui chiedere protezione. Ma le cose sono andate diversamente.

Lo scorso novembre, una volta arrivati a Trieste, “siamo stati presi tutti e portati in alcune tende. Quando è arrivato il mediatore, abbiamo spiegato che volevamo fare domanda di asilo. Ci sono state date delle carte da firmare. Non sapevamo cosa stessimo firmando ma lo abbiamo fatto comunque perché ci avevano detto ‘non preoccupatevi, vi stiamo solo portando in un campo’ – spiega Faisal, in una stanza del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) a Trieste, rivolgendosi all’interprete che cerca di amalgamare e restituire il suo racconto – Poi sono arrivati i medici. Ci hanno fatto i tamponi, ci hanno preso le impronte. Ci hanno fatto i controlli, tolto i vestiti, tolto i nastri delle scarpe”. A quel punto, l’accompagnamento forzato su un automezzo che, dopo aver girato tra le strade della città di confine, si è diretto verso la Slovenia. Faisal all’epoca conosceva già molto bene quella prassi. Prima di essere rimandato indietro dall’Italia, gli era accaduta la stessa cosa in Croazia, per tre volte.

Le dichiarazioni dei suoi respingimenti fanno parte delle circa 4.340 testimonianze raccolte tra gennaio 2019 e gennaio 2021 da Border violence monitoring network, la piattaforma che riporta le ingiustizie perpetrate dai paesi dell’Unione europea in materia di asilo. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal report della rete associativa di RiVolti ai Balcani, i respingimenti informali attuati dall’Italia tra gennaio e novembre dello scorso anno sono stati 1.240. Ma trovare vittime disposte a parlare pubblicamente non è immediato: chi è stato respinto ed è poi riuscito a tornare in Italia teme che far circolare il suo racconto possa far svanire per sempre la speranza di ottenere asilo nel nostro Paese. Coloro che scelgono di denunciare\ lo fanno in preda alla stanchezza di sentirsi costantemente sotto minaccia. In alcuni casi, però, il tentativo di trasmettere timore ai migranti si è trasformato in una spinta a non aver più paura di nulla. “L’unica cosa che temo è Dio”, sottolinea Faisal.

A confermare ogni parola del suo racconto c’è Hamzar, (altro nome di fantasia), che gli siede accanto. Il numero di respingimenti di cui è stato vittima è così alto che mentre rievoca incespica tra troppi dati e troppi ricordi. Con certezza sa solamente che è stato “rimandato indietro a ogni confine. In Grecia, appena passata la frontiera con la Turchia, se vieni beccato nel posto sbagliato ti buttano nel fiume. Tantissimi se ne sono andati via così. Quando mi hanno respinto anche in Italia ho pensato: ‘con tutte le difficoltà che abbiamo passato, le violenze che abbiamo ricevuto e le notti per la strada, perché ci rimandano indietro anche in Italia?’ ”. Eppure, come Faisal, anche lui sostiene che non ha più paura di niente. Eccetto Dio.

Lo scorso gennaio, nelle stesse ore in cui il Tribunale di Roma dichiarava illegali le riammissioni informali dei migranti di cui l’Italia si è resa complice, la rete di Diritti Accoglienza e Solidarietà internazionali del Friuli Venezia Giulia (rete Dasi) ha dato il via a un digiuno a staffetta per spingere il governo e l’Unione europea a mettere fine a queste pratiche: “In tanti anni, è la prima volta che la rete Dasi sente il bisogno di organizzare un’iniziativa del genere. È una manifestazione dal taglio politico, vogliamo che vengano bloccate per sempre queste azioni disumane – racconta Gianfranco Schiavone, aderente all’iniziativa e presidente dell’Ics – Trieste per tanto tempo è stata vista dai migranti come città in cui l’incubo si concludeva. Ma da quando sono iniziati i respingimenti si è trasformata in un luogo in cui l’incubo riprende. Le persone che arrivano non si fermano più qui, sanno che è troppo rischioso fermarsi”.

Dai primi giorni di digiuno, le adesioni sono moltiplicate e in poco tempo hanno travalicato i confini regionali. Attualmente hanno preso parte circa 300 persone coinvolte in tutta Italia, da Bergamo a Firenze, da Venezia a Piacenza, con “prenotazioni” che coprono anche tutto il mese di marzo. Il giorno dello sciopero, i protagonisti si scattano una fotografia che viene poi postata sulla pagina Facebook della Rete Dasi Fvg, con gli hashtag #RottaBalcanica e #NoRespingimenti: “Al momento, lo schema prevede che ogni giorno siano un uomo e una donna a digiunare, in località diverse e con profili culturali, sociali e politici variegati – conclude Schiavone – È importante sottolineare che, a prescindere dal proprio ruolo nella comunità, quella dei respingimenti è una vergogna che ci riguarda tutti”.

Articolo Precedente

8 marzo 2021, nessuna festa per la donna: nel 2020 una su due ha visto peggiorare la propria situazione economica – il sondaggio

next
Articolo Successivo

Otto marzo, le donne vigili del fuoco: “Ogni giorno una sfida diversa, un mestiere che non cambierei”. Il video a 30 anni dalla prima volta

next