C’è il tecnico di radiologia che ricorda in particolare una paziente di 35 anni, ricoverata con il casco Cpap e incinta, a cui fa una radiografia. Si rivedono tempo dopo in reparto. Lei lo saluta con la mano e gli sorride. Sta meglio. Lo identifica. Nonostante la tuta di protezione, la mascherina, la visiera, i guanti. “Conservo questo ricordo con emozione e dolcezza: l’essere stato riconosciuto in un momento di forte sofferenza”, scrive il tecnico, anonimo. Una dottoressa della Asl di Lecce racconta del primo paziente per cui ha chiesto il ricovero, un militare. “Aveva una tosse soffocante che non gli permetteva di dire due parole insieme”, si legge nella sua testimonianza. “Ho continuato a chiamarlo anche in ospedale finché ha potuto rispondermi, poi dai suoi familiari ho saputo che nei giorni successivi è stato in condizioni davvero critiche, ma alla fine ce l’ha fatta”. Alba Montagnuolo scrive invece della pandemia con sua figlia, disabile: “Non abbiamo la possibilità di fare la terapia fisica ed occupazionale in quanto la fisioterapista non può più venire, manca l’assistenza domiciliare tranne un operatore di una cooperativa sociale che coraggiosamente non si è tirato indietro”. Pietro Macaluso, farmacista di Roma, descrive la rincorsa ai dispositivi di protezione: “Quando le mascherine erano introvabili ricordo ancora l’assillo telefonico monocorde: ‘Avete mascherine?’ Ogni telefonata una ferita angosciante (…) e una domanda: ‘cosa ci sto a fare qui?’”.

Sono solo alcune delle storie raccolte dal progetto R-Esistere, promosso SIMeN – Società Italiana di Medicina Narrativa, con il supporto di McCann Healthgroup. Un luogo virtuale dove riunire le testimonianze sulla pandemia, aperto a tutti: pazienti, parenti, personale sanitario. “L’idea è partita poco dopo l’insorgere dei primi casi in Italia. L’intenzione era dare alle persone la possibilità di raccontare le proprie esperienze”, spiega Mario Cerati, referente del progetto e docente di Medicina narrativa all’Università Statale di Milano. “Ma non ci fermiamo qui. Vogliamo analizzarle con una ricerca qualitativa e non quantitativa. Basata perciò sull’osservazione delle situazioni e dei contesti, non sui numeri”.

È questo uno dei cardini della Medicina Narrativa, che nel 2014 è stata definita dall’Istituto Superiore di Sanità come “una metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa” il cui fine è “è la costruzione condivisa di un percorso di cura personalizzato (storia di cura)”. Integra – e non vuole sostituire, mai – la Evidence Based Medicine, cioè la medicina basata sulle prove di efficacia. Se quest’ultima, si legge sulla conferenza di consenso a firma Iss, si concentra sulla malattia fisica vera e propria (disease), la medicina narrativa pone l’accento sulla percezione che il paziente ha della propria patologia (illness), e sull’interpretazione della malattia fornita dal contesto culturale e sociale (sickness). Tre distinzioni consultabili sulla rivista della Società Italiana di Medicina Generale.

“È importante dire che la medicina narrativa non ha un impatto solo a livello umanitario perché dà attenzione al vissuto della persona che sta male. C’è dell’altro: consente di abbassare gli errori diagnostici e aumenta le performance cliniche dei sanitari”, prosegue Cerati. Poco dopo il lancio del sito di R-Esistere, SiMEN viene a sapere che altre realtà si erano mosse nella stessa direzione: “Avevano raccolto moltissime testimonianze e storie però non sapevano come procedere per valorizzarle”, spiega. Nasce così una collaborazione con 30 istituzioni trasversali (associazioni di pazienti, di medici, di cittadini) che inviano a SiMEN il proprio materiale perché lo analizzi. Alcuni esempi: Cittadinanzattiva, FNOPI – Federazione Nazionale Ordine Professionale Infermieri, ISS – Centro Nazionale per le malattie rare, Slow medicine. Il risultato sarà descritto nel corso di un convegno previsto per il prossimo autunno. “Sono centinaia ed è richiesto un grande lavoro: bisognerà studiarle separatamente e poi unirle, per capire dove portano”, prosegue Cerati.

Parte del processo è stato già avviato con l’analisi delle testimonianze fornite dal blog Vissuto.intensiva.it, che riunisce le riflessioni del personale sanitario impegnato nelle terapie intensive. È sostenuto da Siaarti – Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva, Aniarti, Associazione Nazionale Infermieri di Area Critica e Aaroi-Emac, Associazione Anestesisti Rianimatori Ospedalieri Italiani Emergenza e Area Critica. In totale 112 (per l’87% da Vissuto.intensiva.it, per il 13% da R-Esistere) fra storie e racconti nei mesi da marzo a ottobre. Secondo l’analisi svolta da SiMEN, la maggior parte degli operatori scrive riflessioni su quanto ha vissuto (58%). Al secondo posto c’è la cronaca di episodi (42%) e al terzo l’espressione di emozioni (38%). Le parole più frequenti sono pazienti, casa, perché, paura, lavoro, occhi, mani, morte, mascherina, vedere, figli. Emerge l’uso della terminologia bellica o catastrofica: guerra, tsunami, trincea, nemico invisibile, battaglia, inferno.

Le protezioni sono percepite come strumento di difesa, ma anche di allontanamento gli uni dagli altri: “Noi infermieri, medici, oss e fisioterapisti siamo stati tutti oggetto di omologazione, tutti abbiamo perso il nostro essere unici in quanto tali. Le bardature avevano la terribile capacità di azzerare i tuoi tratti distintivi. Molti di noi avranno vissuto il dramma di non riconoscere gli altri e di non essere riconosciuti… il virus aveva rapito anche la nostra unicità”, scrive un operatore. “Giuseppe è morto nella stanza di isolamento… ha vissuto gli ultimi 11 lunghi giorni completamente da solo. Lo scafandro, del personale sanitario, ha diviso il suo mondo dal nostro”, aggiunge un altro.

L’obiettivo previsto per il convegno è ampliare l’analisi anche alle storie di pazienti e parenti, oltre a proseguire con il personale sanitario. I risultati emersi da queste ricerche, spiegano Cerati e Stefania Polvani, presidente SiMEN non sono immediati, ma hanno un forte impatto su tutti i soggetti implicati nella pratica di cura: personale sanitario, pazienti, strutture organizzative. Fra i vari esempi c’è lo studio sul Decalogo del buon paziente e del buon medico condotto presso il reparto di Cardiologia dell’Asl di Firenze, dove c’è un laboratorio di medicina narrativa. “Abbiamo fatto uno studio caso-controllo”, spiega Polvani. Dieci regole di comunicazione valide per entrambe le parti riunite in un unico documento, consegnato a un ambulatorio che faceva da caso. In parallelo hanno poi avviato l’osservazione su un altro ambulatorio dello stesso reparto che fungeva da controllo e che non utilizzava lo strumento pensato dai ricercatori: “L’uso del decalogo modificava tre fattori. Primo: lo stile di vita, che in cardiologia conta tantissimo. Il paziente che si sentiva ascoltato accettava di vivere in maniera più salutare, senza fumare e bere. Secondo: il gradimento dell’utenza verso la prestazione medica, che aumentava”, spiega Polvani. “Soprattutto, terzo: maggiore aderenza alle cure”. Insomma, soggettività dell’esperienza (sia di malattia che di terapia) come veicolo di efficacia e funzionalità, non solo di umanità.

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