Se la sinistra italiana ha una lunghissima tradizione fatta di scissioni, attacchi fratricidi e nuovi partiti nati dalle ceneri dei precedenti, al Nazareno questa dialettica interna è stata compressa – anche se mai sopita – sotto un’unica bandiera dal 2007, cioè quando è nato il Partito democratico. Al netto di fratture interne, leader cacciati fuori dalla porta e l’addio di una parte della Ditta ai tempi del renzismo, i dem finora non hanno rinunciato alla vocazione maggioritaria alla base della fusione tra Democratici di Sinistra e Margherita. Quei mondi, però, legati dall’Ulivo che ancora oggi è nel simbolo, non hanno mai smesso di far pesare i rispettivi distinguo. Così negli anni la galassia di correnti interne al partito non ha fatto altro che aumentare: oggi se ne contano almeno sette, anche se il numero varia a seconda delle stagioni (e dei Congressi). È in questo contesto che si è mosso Nicola Zingaretti (e altri prima di lui), dimessosi a sorpresa dalla segreteria dopo aver accusato i colleghi di parlare solo di “poltrone” e “primarie” mentre sta esplodendo la “terza ondata” del Covid.

L’ormai ex capo del Nazareno è alla guida della corrente progressista del partito, diventata predominante dopo il Congresso del 2019. Ne fanno parte i suoi fedelissimi, da Roberto Gualtieri a Goffredo Bettini, fino a Paola De Micheli e l’ex ministro Enzo Amendola. Un’area forte nel partito ma debole in Parlamento, dal momento che nel 2018 le liste elettorali furono stilate dall’allora segretario Matteo Renzi. Sostiene Zingaretti anche “DemS, corrente che fa capo al vicesegretario Andrea Orlando, all’ex ministro del governo Conte Giuseppe Provenzano e ad Antonio Misiani. L’area più a sinistra all’interno del Pd si completa con “Sinistra radicale”, guidata da Gianni Cuperlo. Si colloca in questa cornice Barbara Pollastrini. Nella tradizione socialdemocratica si inseriscono anche i Giovani Turchi, guidati da Matteo Orfini, che però sono da sempre molto critici nei confronti di Zingaretti. Tra loro c’è Giuditta Pini, che nei giorni scorsi ha duramente attaccato lo squilibrio tutto al maschile dei ministri Pd nel governo Draghi.

Il vero ago della bilancia degli equilibri interni, però, è il plenipotenziario Dario Franceschini. La sua “AreaDem“, di ispirazione cristiano-democratica, finora ha sempre appoggiato il segretario: ne fanno parte altri pesi massimi come la ligure Roberta Pinotti, Piero Fassino, Marina Sereni e Luigi Zanda. A livello numerico, soprattutto in Parlamento, la corrente più estesa è “Base Riformista“. Formata dai renziani che non hanno seguito l’ex segretario nell’avventura di Italia viva, al Congresso del 2019 ha sostenuto Maurizio Martina, poi uscito sconfitto. Da allora rappresenta la principale opposizione alla segreteria di Zingaretti. A guidarla sono Lorenzo Guerini e Luca Lotti, da sempre fedelissimo di Matteo Renzi. Membri di spicco sono Simona Bonafè, il capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, Simona Malpezzi, Emanuele Fiano. Alla Camera fanno riferimento a Base riformista almeno 30 deputati su 90, mentre al Senato sono quasi la metà del totale.

Più sfumata, ma sempre di impostazione liberale, è la posizione di “Energia Democratica“, corrente fondata da Anna Ascani. La deputata, sottosegretaria allo Sviluppo economico nel governo Draghi, è stata a lungo molto vicina alle posizioni di Roberto Giachetti, renziano di ferro oggi in Italia viva. Chiude l’elenco “Fianco a Fianco“, il gruppo capitanato dall’ex segretario Martina (dimessosi dal Parlamento per andare alla Fao) di ispirazione socialista liberale. Il leader attualmente è Graziano Delrio, capogruppo dem a Montecitorio, anche lui in passato vicino a Renzi. Tra gli esponenti principali ci sono Tommaso Nannicini, più volte critico nei confronti della linea Zingaretti, Matteo Mauri, Debora Serracchiani. Caso a parte sono gli amministratori locali del Pd, non coinvolti nella gestione nazionale del partito ma molto in vista sulla scena pubblica. Come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, quello di Firenze Dario Nardella, i governatori Vincenzo De Luca e Stefano Bonaccini. Anche loro potrebbero avere un peso nel futuro del partito, diviso tra chi crede nell’alleanza con Leu e il Movimento 5 stelle e chi invece vuole discontinuità con l’era Zingaretti. La resa dei conti, almeno per ora, è fissata all’Assemblea nazionale del 13 e 14 marzo.

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