Quando ero al liceo scoprii il significato di Zeitgeist, letteralmente spirito del tempo. Si tratta di un’espressione tedesca che indica la tendenza culturale del momento, un fenomeno che riesce a unire le persone in una specifica epoca a prescindere dalla provenienza. Oggi quel fenomeno, o meglio quella tendenza, è la comunicazione audio.

La mia collega Natasha lo ha inquadrato di recente come un interessante “ritorno all’oralità”. Da un punto di vista sociologico, puntare sull’audio significa chiudere il cerchio. Come esseri umani siamo partiti dalla comunicazione orale, e a questa stiamo tornando.

Immaginate un mondo in cui non esista la scrittura. Le persone devono necessariamente parlarsi per trasmettere concetti e preservare la memoria delle cose. In questo contesto, l’oralità è il pilastro della cultura. Eventi e persone restano nella storia se le persone ne parlano a voce.

Oggi le alternative sono infinite, eppure l’audio torna a dominare l’immaginario. Nel 2020 gli ascoltatori di podcast in Italia sono stati 13,9 milioni, +15% rispetto all’anno precedente. Gli audiolibri hanno addirittura registrato un incremento del 94% nel 2020, portando l’ascolto di audiolibri a valere il 7,4% dell’intera editoria (dati Nielsen). I numeri parlano chiaro.

Anche le operazioni dei colossi del tech vanno nella direzione dell’audio. Spotify ha acquistato Megaphone, azienda specializzata in adv per podcast. Twitter ha lanciato Spaces per facilitare le conversazioni orali. Adesso anche Facebook sta valutando lo sviluppo di una chat audio.

Re indiscusso della conversazione sull’audio è il social network Clubhouse. Rendendo l’oralità il pilastro della piattaforma, Clubhouse ha saputo capitalizzare lo spirito del tempo. Ha poi giocato sull’ego degli utenti creando un’illusoria percezione di esclusività nei confronti di chi utilizza l’app. Merito dell’accesso limitato ai dispositivi iOS e solo su invito. Mi ricorda tanto il “Think Different” di Apple. Un curioso rovesciamento della realtà in cui l’invito a coltivare il proprio individualismo e a emergere per la propria unicità si sostanzia compiendo un’azione standardizzata e omologante. Comprare un iPhone, accedere a Clubhouse etc.

Eppure chi lavora nella comunicazione è bene che si interessi di Clubhouse. Nel 2021 non possiamo più accettare lamentele anacronistiche del tipo “ci mancava un’altra applicazione”. Internet è velocità e le cose cambiano in fretta. Dedicare una porzione anche ridotta del proprio tempo per fare esperienza diretta dell’app significa restare aggiornati.

Lo so, Clubhouse potrebbe essere una meteora. Ci sono buone possibilità che col migliorare della contingenza pandemica, e il ripristino graduale delle attività offline, l’interesse verso la piattaforma cali o addirittura crolli del tutto. In 6-12 mesi potremmo averlo già dimenticato. Ma questo non significa che non sia importante studiare Clubhouse.

Se Clubhouse è esploso a questo livello di intensità su scala mondiale – ovviamente attecchendo in modo differente nelle diverse nazioni – significa che ha colto lo spirito del tempo, e che l’umanità è realmente interessata a un social network solo audio. Non importa se Clubhouse chiude domani. Quello che conta è l’insight che stiamo portando a casa. Gli utenti sono interessati a una conversazione orale che si manifesta in tempo reale su temi di loro interesse e li avvicinano a persone spesso inaccessibili sulle altre piattaforme.

Usando una metafora ardita, Clubhouse potrebbe seguire l’evoluzione di Vine. Vine fu un’app lanciata nel 2013, disponibile inizialmente solo per App Store, che consentiva agli utenti di realizzare video di massimo 6 secondi. Utenti di tutto il mondo furono portati ad adattare la loro creatività ad un formato di comunicazione visuale e frenetico. Nel 2017 Vine chiuse e molti, ingenuamente, schernirono coloro che avevano speso tempo ed energie per farsi un nome sulla piattaforma. Eppure TikTok avrebbe ereditato da Vine la stessa meccanica di montaggio video con sequenze veloci, aggiungendoci la musica.

Chi ha fatto esperienza con Vine, senza saperlo, si stava allenando per TikTok. Stessa cosa potrebbe accadere con Clubhouse: tutti guardiamo al dito, cioè l’app in sé, mentre non stiamo prestando adeguata attenzione alla Luna, ovvero all’interesse dimostrato dalla collettività per questa nuova meccanica di interazione. Clubhouse è solo l’antipasto.

Sospetto tra l’altro che l’overdose da videocall che tutti abbiamo vissuto nel 2020 abbia facilitato l’adozione così repentina del social network. Clubhouse ci ha liberato dallo stress di doverci mostrare in camera, capitalizzando la Zoom fatigue a proprio beneficio.

Chiudo con una previsione e un invito. La previsione riguarda il mercato del lavoro. Nei prossimi anni ci sarà sempre più richiesta di Audio Specialist, figure ibride che combinano ars oratoria e competenza tecnica, cresciuti a pane e podcast. Aiuteranno le aziende a internalizzare la realizzazione di prodotti audio.

L’invito è a seguirmi su Clubhouse. Ogni 7-10 giorni organizzo una live insieme ad altri professionisti fornendo consigli sul digitale a Pmi e startup. Ritmo veloce, clima informale: si ragiona e ci si diverte, senza pretese di verità divina. Mi trovate come @federicosbandi.

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