di Alessandro Giannì*

“Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale”
Ken Saro Wiwa, scrittore e attivista nigeriano impiccato, con otto compagni, a Port Harcourt il 10 novembre 1995

Io me lo ricordo bene, il 10 novembre del 1995: quella notizia tremenda mi giunse mentre ero ad Agrigento, per parlare della battaglia di Greenpeace contro le spadare, i “muri della morte” che – nonostante il bando che siamo riusciti ad ottenere nel 2002 – continuano ad uccidere ancora oggi. Certe battaglie sembrano non finire mai.

Come quelle del popolo Ogoni, che difende le sue terre (e le sue acque) nel delta del Niger assediate e devastate, da ben più di mezzo secolo, dai giganti del petrolio. Uno scandalo di proporzioni internazionali, certificato da un rapporto (del 2011) dello United Nazion Environmental Programme (Unep): alcuni pozzi, utilizzati dai villaggi per bere, lavarsi e cucinare, contenevano livelli di benzene (un idrocarburo aromatico cancerogeno) mille volte oltre le soglie ammesse in Nigeria (3 µg/L). Una contaminazione allucinante, cui va aggiunto il fatto che, ad esempio, in Italia il valore soglia, definito dal Decreto Legislativo n.31 del 2001 è tre volte più basso: 1 µg/L.

Una devastazione cui Ken Saro Wiwa, scrittore e poeta, si ribellò pagando con la vita. La multinazionale Shell ha poi patteggiato, nel 2009, un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari per l’assassinio di Ken Saro Wiwa e dei suoi compagni, senza però ammettere alcuna responsabilità.

Ancora oggi, la terra degli Ogoni è avvelenata, i fiumi devastati, dalle attività delle multinazionali petrolifere e non sono solo da Shell. La comunità Ikebiri, con il supporto di Friends of the Earth (FoE), nel 2018 ha avviato una causa, a Milano, chiedendo di essere risarcita per l’inquinamento delle sue terre causato, questa volta, da Eni e dalla sua controllata nigeriana Naoc: la causa si è conclusa con un accordo extragiudiziale (i cui dettagli non sono noti) ma molti ritengono che Eni e Naoc abbiano di fatto ammesso le proprie responsabilità.

A L’Aia, nei Paesi Bassi, un altro processo ha portato proprio in questi giorni – il 29 gennaio – a un chiaro pronunciamento della Corte d’Appello, che ha ordinato alla controllata nigeriana di Shell di compensare quattro contadini di Oruma e Goi, due villaggi del delta del Niger, per i danni causati alle loro terre dalle perdite degli oleodotti. Dopo 15 anni, ancora con il sostegno di FoE, un primo successo. Amaro: due dei quattro contadini sono nel frattempo morti (la causa è cominciata nel 2008) ma i loro figli sono subentrati nella causa.

Anche se l’ammontare dei risarcimenti deve essere ancora definito (e senza dimenticare che questa decisione può ancora essere impugnata presso la Corte Suprema olandese) è finalmente giunto il momento i cui i signori del petrolio sanno di non essere più al sicuro. Le vittorie sul fronte dei risarcimenti si fanno sempre più frequenti: nel 2015, in Inghilterra, Shell ha concordato un risarcimento di 83 milioni di dollari circa per la comunità di pescatori di Bodo, mentre lo scorso novembre la Corte Suprema della Nigeria ha rigettato un ricorso di Shell che rischia di pagare altri 467 milioni di dollari di danni.

Gli abitanti del delta del Niger da decenni lamentano che le perdite di tubi-colabrodo, con scarsa manutenzione e poca sicurezza, causano inquinamento (e in alcuni casi incendi) mettendo in pericolo la loro sussistenza. In una dichiarazione successiva alla sentenza, Shell ha insistito nel dichiarare che questi sversamenti sono causati da “sabotaggi”.

Ma la Corte, oltre a ritenere evidentemente non provata questa eventualità, ha chiesto a Shell di installare sistemi di rilevamento delle perdite negli oleodotti in questione. Un banale sistema di sicurezza sempre più utilizzato ma che, fino ad ora, probabilmente Shell non aveva ritenuto necessario per non vessare ulteriormente la martoriata terra degli Ogoni.

*direttore delle campagne di Greenpeace Italia

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