In principio fu una minaccia, pronunciata a inizio dicembre, abbandonando un vertice di maggioranza notturno. Sembrava uno spauracchio per cambiare giusto un po’ gli equilibri, era l’inizio di un’escalation. Sono partiti così quasi due mesi di ricatti quotidiani, interviste h24 a edicole ed emittenti unificate, e persino un intervento gridato in Senato con un leader della maggioranza che ricatta la sua stessa maggioranza. Più che impronte digitali la crisi del governo Conte 2 porta una firma chiara ed evidente. Una soltanto: quella di Matteo Renzi. Il leader di Italia viva ha voluto e ottenuto che la maggioranza saltasse in aria in un momento cruciale per il Paese: il cuore della seconda ondata della pandemia, l’inizio della campagna di vaccinazione contro il Covid, la consegna del Recovery plan a Bruxelles. Così, mentre nel suo discorso di fine anno Sergio Mattarella cercava di indicare il percorso della responsabilità e inaugurava “il tempo dei costruttori“, l’ex premier ha tirato dritto per la sua strada, ignorando ogni tentativo di mediazione, con un unico grande obiettivo: far saltare il banco.

Una mossa da giocatore d’azzardo prestato alla politica che gli italiani, lo dicono i sondaggi, hanno fin da subito ritenuto “incomprensibile” nei modi, nelle ragioni e soprattutto nei tempi. O peggio, il 73% ritiene che Renzi abbia rotto “per interessi personali”. Lo spregiudicato copione del leader di Rignano sull’Arno era abbastanza prevedibile: prima è uscito dalla maggioranza ritirando le sue ministre, poi subito dopo si è offerto per tentare d’iniziare un nuovo dialogo. Una mossa da palazzo di Prima Repubblica compiuta in uno dei momento più delicati della recente storia italiana. Se di governi saltati e legislature interrotte sono pieni gli annali, infatti, nessuno si sarebbe aspettato di vedere scene simili mentre il Paese conta centinaia di morti ogni giorno. “Sgomento” è la parola che è trapelata dal Quirinale nelle ore più calde. Una volta aperta la breccia però, a venire giù è stata tutta l’impalcatura che un anno e mezzo fa era stata montata tra incertezze e diffidenze reciproche. Evocata col pretesto della cabina di regia del Recovery, nutrita con una serie di recriminazioni varie – dalla delega ai servizi al Mes – non è un caso che la crisi sia deflagrata definitivamente non quando Conte si è presentato alla Camere per la fiducia, ma quando in agenda c’era la relazione sulla Giustizia di Alfonso Bonafede. Soldi e riforme: è per questo che è caduto il governo. Cosa succede ora è la domanda che da giorni si fanno tutti: la strada per un Conte ter è molto stretta e rischia di finire in uno scivolo che conduce direttamente al voto anticipato.

Come ci siamo entrati – Comunque la si guardi, la crisi del Conte 2 ha le sembianze della crisi più di “palazzo” possibile. Distante dagli umori e dai bisogni degli elettori, indecifrabile per i più. Volendo ignorare quelli che erano i primi segnali di un anno fa, con i piedi puntati proprio sulla Giustizia (e per la precisione sulla prescrizione), il giorno in cui inizia lo strappo è il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio e vigilia dell’Immacolata. Mentre il Paese si prepara suo malgrado a sacrificare gran parte delle abitudini natalizie a causa del virus, Italia viva abbandona il vertice sul Recovery plan convocato prima del consiglio dei ministri. I renziani non vanno a Palazzo Chigi, mentre il loro leader decide di parlare ai giornali per lanciare la minaccia zero: era pronto a ritirare le ministre senza modifiche al Recovery. Che tipo di modifiche? In sintesi: la spartizione dei fondi e la governance, cioè la gestione dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa. Entrambi i temi, si scoprirà poi, erano stati già discussi prima in Parlamento e poi in una lunga serie di vertici di maggioranza: presenti, ovviamente, ministri e capigruppo di Italia viva. Per Renzi, però, quei temi già affrontati diventano all’improvviso il motivo dirimente per mettere a rischio la maggioranza. Il ricatto lo esplicita in Aula il 9 dicembre: il Recovery plan non va più bene, prima non dicevano sul serio, e va ridiscusso da capo. Iniziano lunghissime mediazioni, ma per l’ex presidente del consiglio non bastano mai. Il 28 dicembre presenta il suo contropiano e lo chiama Ciao. Sono trenta pagine di critiche e tredici di proposte (le abbiamo contate qui): attacca personalmente il premier, l’esecutivo, la maggioranza. Nonostante i toni nel governo si cerca fino all’ultimo di ricucire. Conte, nella conferenza stampa di fine anno, dice per la prima volta un concetto banale e scontato: “Se mancano i numeri andrà in Aula”. Ma “non sfido nessuno”. E intanto invoca una sintesi sul piano. I renziani capiscono l’opposto: “Il premier ci ha sfidati”, dicono a ogni tg, talk show e quotidiano che li intervista.

Il clima è sempre più teso, mentre le preoccupazioni degli italiani sono rivolte soltanto al secondo inverno trascorso in piena emergenza sanitaria. Nel discorso di fine anno il presidente della Repubblica chiede distensione, chiama in causa il senso di responsabilità necessario per affrontare tempi di grave crisi. Mattarella dice che questo è tempo di “costruttori” e che “non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte”: ai renziani fischiano le orecchie. Per un attimo sembra possibile che tutti lo ascoltino, ma non è così. Il governo continua a lavorare sul testo del Recovery, Conte fa vari giri di consultazioni e cerca di estenderli a più rappresentanti dei partiti possibile: una delle accuse fatte dai renziani era che non volesse condividere le decisioni, il premier cerca di rimediare. L’11 gennaio il Colle telefona a Renzi: non è accettabile che si rallenti un piano da 200 miliardi per risollevare l’Italia. L’ex premier, almeno di fronte a Mattarella, non se la sente di insistere e assicura che i suoi non voteranno contro. Sembra quasi che la crisi stai rientrando. Ecco allora che il 12 gennaio esce la nuova bozza del Recovery plan: ci sono più soldi alla sanità, agricoltura, infrastrutture e turismo. Cambiamenti chiesti anche da Italia viva. E invece niente: per i renziani non è ancora sufficiente. Il resto è cronaca di un lento precipitare: le ministre renziane si astengono in Consiglio dei ministri, Conte sale al Colle e poi tenta una mediazione definitiva annunciando un patto di legislatura davanti alle telecamere. Ma Renzi ha già deciso, chissà da quando: va in conferenza stampa con Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto e, monopolizzando la scena per oltre un’ora, spiega che loro si chiamano fuori. E’ la mossa che parlamentarizza la crisi. Nei fatti è il tasto del telecomando che fa saltare in aria la maggioranza.

Come si può uscire – Se entrare nella crisi è stato facile, uscirne si preannuncia molto più complesso. Oggi iniziano le consultazioni del presidente della Repubblica: proseguiranno fino a venerdì. Pd, M5s e Leu ribadiranno il sostegno a un nuovo governo Conte. I leader del centrodestra, invece, hanno già fatto sapere che saliranno insieme al Colle: vuol dire che Forza Italia manterrà ufficialmente la stessa posizione di Lega e Fratelli d’Italia, cioè quella per il ritorno alle urne. Ago della bilancia saranno quindi i piccoli partiti: tra Conte e il voto cosa sceglierà Italia viva? E le componenti del gruppo Misto? E nasceranno nuove componenti composte magari da senatori di Forza Italia che temono il ritorno alle urne? E tutti i parlamentari d’Italia viva saranno d’accordo con le decisioni prese dal loro leader? Quando questi interrogativi saranno sciolti, Mattarella avrà essenzialmente tre strade. La prima: se ci fossero i margini di manovra potrebbe conferire un nuovo incarico a Conte per varare un esecutivo con una maggioranza più larga dell’attuale. Da capire se grazie all’arrivo di quei 10/15 senatori responsabili o dopo un riavvicinamento con Italia viva. Al momento sembra favorita la prima ipotesi, anche se i cosiddetti “costruttori” faticano fino a questo momento a palesarsi. Su ritorno di Renzi in maggioranza, invece, pesano interrogativi legati soprattutto alla sua affidabilità: anche se Italia viva non dovesse porre veti su un nuovo incarico a Conte, i 5 stelle e una parte del Pd non sembrano fidarsi della lealtà dell’ex segretario del Pd, vero killer del Conte 2. Mancando i voti dei responsabili ed essendo escluso il ritorno dei renziani in maggioranza, tramonterebbe invece l’ipotesi di una permanenza a palazzo Chigi dell’attuale inquilino.

A quel punto si aprirebbero altri scenari: dal cambio di premier con una coalizione allargata a Italia viva (ma i 5 stelle dovrebbero essere d’accordo), a una eventuale nuova maggioranza di governo. Si discute di un esecutivo sostenuto dalla cosiddetta “maggioranza Ursula“, di uno di larghe intese o di unità nazionale. Tutte formule alchemiche che Mattarella dovrà vagliare solo dopo un giro completo di consultazioni. Se dunque non dovesse affidare un nuovo incarico a Conte, potrebbe optare per un mandato esplorativo a un personaggio diverso dall’attuale presidente del consiglio. Se invece non dovesse esserci la possibilità di risolvere la crisi il capo dello Stato sarà costretto a imboccare la strada che porta alle inevitabili elezioni anticipate. In quest’ultimo caso Mattarella dovrà decidere se mandare gli italiani alle urne a strettissimo giro, sciogliendo subito le Camere (le elezioni vanno fissate entro 70 giorni). Oppure se temporeggiare per aspettare che cali l’impatto dell’epidemia: e quindi nominare un “governo elettorale” senza maggioranza che traghetti il Paese verso il voto, che sarebbe presumibilmente fissato la prima domenica di giugno. A fine luglio, infatti, comincia il semestre bianco, ovvero i sei mesi che precedono l’elezione del nuovo capo dello Stato e durante i quali non possono essere sciolte le Camere. Proprio il nodo elezione del Quirinale è centrale in queste ore: il ritorno al voto con il Rosatellum, stando agli ultimi sondaggi, consegnerebbe la vittoria nelle mani del centrodestra. E quindi poi avrebbe il centrodestra i numeri per eleggere il nuovo capo dello Stato.

Perché il governo è caduto sulla Giustizia – Come era già accaduto col precedente esecutivo – quello sostenuto da Lega e M5s – anche questa volta Conte ha cominciato ad avere problemi non appena il capitolo giustizia è entrato nell’agenda dei lavori parlamentari. Nell’estate del 2019 Matteo Salvini decise di rompere l’alleanza con i 5 stelle per scongiurare – tra le altre cose – l’odiata riforma che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Contenuta nel ddl Spazzacorrotti, la legge è poi entrata in vigore nel gennaio del 2020, ma ha animato feroci guerre intestine anche durante il governo Conte 2. Molti retroscena suggeriscono come Renzi avrebbe voluto fare cadere il governo già nell’inverno scorso proprio per boicottare la riforma di Bonafede. E infatti più volte Italia viva aveva votato col centrodestra in commissione. Alla fine, dopo una serie di lunghissimi vertici notturni, la maggioranza aveva trovato la quadra con il cosiddetto “lodo Conte“: una mediazione che inseriva due meccanismi diversi della prescrizione a seconda che gli imputati siano stati condannati o assolti alla fine del processo di primo grado. Quella norma è arrivata insieme a tutta la riforma del processo penale sul tavolo della commissione nell’agosto scorso. A dicembre sarebbe scaduto il termine per produrre emendamenti ma i renziani, spalleggiati dall’opposizione, hanno chiesto più tempo: il nuovo termine è stato fissato per il primo giorno di febbraio. Nel frattempo, però, è caduto il governo.

Sette giorni dopo aver incassato la fiducia alle Camere, infatti, la maggioranza rischiava seriamente di andare sotto – almeno al Senato – sulla relazione Bonafede. È per questo che Conte si è dimesso: per evitare di essere sfiduciato in Parlamento. Come ogni anno il guardasigilli avrebbe dovuto comunicare alle Camere quanto fatto nel 2020, quando al governo c’era pure Italia viva. E quindi la riforma sul processo penale e penale, quella della prescrizione col “lodo Conte” e quella su Csm: tutte leggi attualmente bloccate in commissione. Il guardasigilli, però, avrebbe anche riassunto le linee guida per il 2021. Vuol dire essenzialmente quanto è contenuto nel Recovery plan, che stanzia quasi 3 miliardi di euro proprio per la giustizia. Soldi che serviranno soprattutto – 2,3 miliardi – per assumere magistrati, cancellieri, dipendenti che fanno parte del personale tecnico. In totale si tratta di 16mila persone che avranno come obiettivo quello di eliminare l’arretrato che grava sui giudici, velocizzando i processi. Soldi e giustizia, miliardi e riforme per punire chi vuole appropriarsene indebitamente: è su questo che è caduto il governo. Di nuovo.

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