Dieci anni dalla morte di Steve Jobs, dieci anni di Tim Cook ai vertici di Apple sono tanti. Tanti, anche se sono sempre meno dei tredici (1984-1997), quanto durò l’esilio babilonese del fondatore di Apple, cacciato dall’azienda che aveva creato e poi richiamato a gran voce per tirarla fuori da un incombente fallimento. E poi farla rinascere fino a condurla in cima all’indice S&P in un trionfo senza precedenti. Se tredici anni furono l’arco temporale capace di portare Apple dal trionfo al disastro, fatti i debiti conti, a Tim ne resterebbero almeno ancora tre per restituire ad Apple il suo spirito, forse un po’ di più. Perché dalla morte di Steve Jobs, Apple viaggia senza innovare: le macchine e i sistemi operativi sono sostanzialmente gli stessi del 2010, perfino il marketing, così fondamentale, non è cambiato per nulla. Certo sono cresciuti i profitti, ma meglio non fermarsi alla superficie.

E la sostanza è che, nonostante le gioie apparenti di questi anni, Tim Cook non è Steve Jobs. È un suo delfino, scelto evidentemente all’interno di una covata di collaboratori che non gli potessero fare ombra o fronda. Un altro Sculley o un Amelio qualsiasi, un manager bravo, come fortunatamente se ne trovano molti, ma un semplice gestore, non un innovatore, non di sicuro un imprenditore nel senso schumpeteriano e rivoluzionario della parola, come era invece Jobs. Cook senza Jobs prima di sé avrebbe già cambiato mestiere; Apple senza lo straordinario slancio innovativo, senza lo strepitoso vantaggio tecnologico che aveva in cassaforte allorché Norah Jones intonava la dylaniana “Forever Young” in memoria di Steve, oggi sarebbe ai margini del mercato e non avrebbe certo il patrimonio, i profitti, il volume d’affari di cui, per il momento, gode ancora.

Ma siamo ai limiti. Apple non potrà sopravvivere ancora molti anni senza innovare. Molte aziende tirano avanti la carretta lucidando l’argenteria di casa, lustrando l’arredamento, senza toccare l’esistente, in altre parole solo con l’ordinaria amministrazione, con una gestione oculata, economie di scala, nulla più. Non Apple, che ha un’altra pelle e un’altra anima. La Mela è un’azienda nata e cresciuta con il Dna della rivoluzione, del cambiamento. Se non rivoluziona un qualche mercato (dei pc, dei telefoni portatili, dei player musicali) muore, perde la sua anima, la sua ragione esistenziale. L’azienda di Cupertino non è tale solo per il suo marketing (eccezionale), ma per la filosofia che sta sotto, che è quella di essere migliori, di essere più belli, più bravi, sempre più avanti, in dispetto a un mercato che ci vorrebbe tutti conservatori. Come capita spesso, il patrimonio di maggior valore non è quello materiale, anche per Apple.

È il problema di tutte le aziende che hanno fondato il loro successo sull’innovazione. Il capitalismo campa e sopravvive sull’innovazione. La stragrande maggioranza delle (poche) bellezze del capitalismo discendono dal suo aver bisogno assoluto dell’innovazione, della chance offerta a chiunque di cambiare il mondo. Il capitalismo senza innovazione è un sistema sociale triste, facile preda del potere villano, senza futuro e con un presente progressivamente peggiore. Così è Apple, e non solo.

Ma l’innovazione è fatica, è lastricata di errori, di tentativi falliti, di un’ostilità ambientale precostituita. La conservazione – sembra contradditorio – è perseguita soprattutto da chi sta in fondo alla scala sociale ed è l’arma preferita da quelli che stanno in cima per continuare a restarvi senza fatica. Il capitalismo senza innovazione muore, ma continua a governare il mondo, né più né meno di come la nomenklatura sovietica continuava a guidare l’URSS anche quando i capi, non solo metaforicamente, erano delle vere e proprie mummie. Ora dopo dieci anni, la campana sta squillando per Apple. Se Tim Cook si illude di convertire Apple in una specie di Microsoft sbaglia.

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