Quasi duemila miliardi di dollari per combattere la crisi economica provocata dalla pandemia. Li ha annunciati il presidente eletto Joe Biden, a cinque giorni dall’Inaugurazione del suo mandato da presidente degli Stati Uniti. L’annuncio di Biden è arrivato nel giorno in cui il Dipartimento del Lavoro ha reso pubblici altri drammatici numeri: quasi un milione di nuove richieste di disoccupazione nella prima settimana di gennaio. “Davanti a noi abbiamo una crisi che ha portato profonde sofferenze. Non c’è tempo da perdere, dobbiamo agire subito”, ha detto Biden. L’agenda del nuovo presidente non sembra però, sin da subito, avere vita facile. I repubblicani sono contrari a nuove misure di stimolo economico. Soprattutto, l’azione di Biden su pandemia e crisi economica rischia di scontrarsi con le manovre al Senato per l’impeachment a Donald Trump.

IL PIANO DI BIDEN – La proposta del futuro presidente democratico è definita «Rescue and Recovery»: dopo una prima fase di aiuti prevede finanziamenti per lo sviluppo (che verranno annunciati da Biden il mese prossimo in un messaggio al Congresso). Il pacchetto proposto ieri prevede un iniziale stanziamento di 1900 miliardi di dollari, così suddiviso: 400 miliardi saranno direttamente investiti nella lotta al virus, in modo da arrivare a distribuire 100 milioni di dosi di vaccino in 100 giorni e riaprire le scuole in sicurezza; previsti finanziamenti per un totale di 350 miliardi per città e Stati in difficoltà finanziarie dopo una drammatica riduzione delle loro entrate fiscali; ci sarà anche un assegno da 1400 dollari per una buona parte degli americani, che si vanno ad aggiungere ai 600 appena stanziati dal Congresso (in totale, saranno 1000 i miliardi destinati all’aiuto diretto alle famiglie).

Il piano di Biden ha comunque una portata ben più larga rispetto a quella, si spera temporanea, della pandemia. L’amministrazione prevede indennità di disoccupazione più cospicue, l’aumento dei sussidi per l’assistenza ai minori, congedi familiari retribuiti e un rialzo a 15 dollari del minimum wage, del minimo salariale federale. Sempre legata all’attuale crisi sanitaria è invece la misura, pari a circa 30 miliardi, che mira a bloccare gli sfratti per chi non riesce più a sostenere i costi di un affitto o del mutuo. “Non abbiamo solo un imperativo economico che ci porta ad agire. Abbiamo anche un imperativo morale”, ha detto Biden, che ha sottolineato la necessità di una maggiore equità sociale: “Se investiamo oggi, aiutando lavoratori e famiglie americane, rafforzeremo la nostra economia e ridurremo le diseguaglianze“.

Difficile a questo punto dire quanta possibilità di passare ha il piano di Biden. La maggioranza al Senato per i democratici è risicatissima e basta una sola defezione per bloccare tutto. “Ricordiamoci che soltanto 18 giorni fa il Congresso ha fatto passare una legge bipartisan di stimolo economico da 900 miliardi“, ha subito avvertito il senatore repubblicano del Texas John Cornyn. I repubblicani non sembrano propensi ad accettare una nuova legge di stimolo nel giro di poche settimane. Sono contrarissimi a qualsiasi discussione sull’aumento dei minimi salariali e comunque intendono avanzare le loro richieste. Per esempio, una misura che metta al sicuro le imprese da eventuali rivalse legali da parte dei lavoratori che si ammalano sul luogo di lavoro.

IMPEACHMENT E PRIMI PASSI DELL’AMMINISTRAZIONE BIDEN – La discussione sulla nuova legge di stimolo economico si accompagnerà, nelle prossime settimane, alle procedure di impeachment per Donald Trump. La cosa non piace per niente a Biden. Non che il futuro presidente abbia molti dubbi sulle responsabilità di Trump nell’incitare la folla dei sostenitori ad attaccare il Congresso: “Per quello che ha fatto, dovrebbe già essere fuori dalla Casa Bianca“, ha detto Biden nei giorni scorsi. La preoccupazione del democratico è un’altra: che la procedura di impeachment possa rallentare la sua agenda legislativa: dalle nomine della sua amministrazione al passaggio del piano di stimoli.

Nei giorni scorsi Biden ha chiamato il leader repubblicano del Senato, Mitch McConnell, per assicurarsi che il Senato riesca a rispettare le scadenze più urgenti. In particolare, Biden chiede al più presto il voto di conferma del Senato per le tre più importanti figure della sua amministrazione: segretario di stato, segretario al tesoro, attorney general. Dopo la telefonata con McConnell, Biden ha rilasciato questa dichiarazione, che esprime tutta la sua preoccupazione: “Spero che la leadership del Senato trovi il modo per ottemperare alle sue responsabilità costituzionali sull’impeachment, riuscendo però anche a lavorare sulle questioni più urgenti di questa nazione”.

Non si tratta, ovviamente, soltanto di una questione tecnica, di calendario del Senato. Biden è un centrista, un moderato e ha più volte espresso l’intenzione di usare il suo mandato per unire e pacificare l’America. “Non c’è nulla che l’America, quando è unita, non possa fare”, ha detto Biden nel discorso di ieri sera. Con i soldati che difendono il Congresso da nuovi attacchi, con Trump che non arretra di una passo, con la prospettiva di altre esplosive tensioni legate all’impeachment, l’appello di Biden all’unità rischia di restare una chimera.

L’ipotesi più probabile, al momento, è soprattutto una: che nei primi giorni dell’amministrazione Biden il Senato si divida in due. Una parte della giornata sarà dedicata all’impeachment, l’altra all’agenda legislativa di Biden. È ormai certo – McConnell l’ha ripetuto diverse volte – che i senatori non torneranno in aula prima del 19 gennaio. Il 20 è il giorno dell’Inaugurazione di Biden. Quindi le due cose non potranno che proseguire parallelamente. Impossibile dire quanto durerà il processo di Trump al Senato, ma non sarà sicuramente cosa di pochi giorni. Si tratta di ascoltare i capi di imputazione e dare agli avvocati di Trump tempo per la difesa. Solo allora i senatori inizieranno il dibattito – che potrebbe per l’appunto durare giorni.

Come non è chiara la tempistica dell’impeachment, non è chiaro nemmeno l’esito. I dieci repubblicani che hanno votato alla Camera per l’incriminazione di Trump hanno sicuramente compiuto qualcosa di storico. Mai tanti deputati di un partito avevano votato per l’incriminazione di un presidente del loro stesso partito (nel 1868 nessun democratico votò per l’incriminazione del democratico Andrew Johnson; solo 5 democratici votarono per l’incriminazione di Bill Clinton nel 1998). Riconosciuto il valore storico di quanto avvenuto alla Camera, resta da vedere cosa succederà al Senato. Per condannare Trump ci vogliono i due terzi dei senatori presenti in aula, quindi 67 voti. I democratici possono contare su 50 voti; ne mancano 17, che al momento tra i repubblicani non ci sono.

Ieri Lisa Murkowki, senatrice dell’Alaska, ha detto che l’azione di Trump è stata “illegale” e che il presidente se ne dovrà assumere la responsabilità. Murkowki potrebbe votare per la condanna, insieme a Mitt Romney, a Susan Collins, a Pat Toomey e a Ben Sasse. Sono quindi per ora cinque i repubblicani orientati a votare con i democratici. Ne mancano almeno altri dodici. Tanti, forse troppi per arrivare davvero alla condanna di Trump.

È ovvio, a questo punto, che ciò che la leadership repubblicana vuole è disfarsi di Trump, nel più breve tempo possibile, e possibilmente per sempre. Proprio McConnell ha spiegato ai suoi collaboratori di ritenere Trump una minaccia per il futuro del partito. Il problema è però come disfarsi di Trump. McConnell e i suoi hanno dato un’occhiata ai sondaggi: soltanto il 15 per cento degli elettori repubblicani vuole la condanna di Trump. Vale dunque la pena di mettersi contro la grande maggioranza del proprio elettorato, per un voto che sarà soprattutto simbolico (essendo Trump già fuori dalla Casa Bianca)?

“Rischiamo di farlo diventare un martire – ha detto il senatore della Florida, Marco Rubio. – Finiremo per scatenare ancor di più gli estremisti”, ha spiegato Lindsay Graham. L’ipotesi più probabile, al momento, è quindi che i repubblicani facciano mancare i loro voti e salvino Trump dalla condanna. Sperando però che l’ormai ex presidente, fiaccato dalle polemiche e da possibili nuove inchieste giudiziarie a suo carico, si eclissi dalla vita del partito e scompaia per sempre dalla scena pubblica dell’America.

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