Si può costringere qualcuno ad essere sano? Questo dilemma etico attraversa la storia della medicina che, a sua volta, si interseca con le decisioni politiche. Il documentario a puntate SanPa, attualmente in visione su Netflix, parla di questo dilemma, mettendo crudamente in luce le contraddizioni che emergono di fronte alla tossicodipendenza.

Nel corso della mia professione ho parlato con decine di famiglie al cui interno vi era un paziente tossicodipendente. Si oscillava fra momenti di aiuto e accudimento e fasi in cui l’aggressività emergeva prepotente, con la tentazione di legare la persona per impedirle di recarsi dallo spacciatore. Mi ricordo il caso di una madre che assoldò due persone e insieme andarono a picchiare chi vendeva dosi al figlio, per poi costringere il ragazzo a rimanere chiuso in casa per due mesi. All’opposto ricordo una nonna che tutte le volte, a dispetto delle esperienze precedenti, accoglieva la nipote che aveva toccato il fondo.

Il ricordo più pregnante che mi viene in mente è quello di una ragazza tossicodipendente di 18 anni che io e l’allora mio primario ricoverammo con un trattamento sanitario obbligatorio perché era in stato allucinatorio, determinato dall’eroina e in situazione di gravissima denutrizione, con serio pericolo di vita. Era arrabbiata per questa nostra sofferta decisione e ci gettò il malaugurio, dicendo: ” Vi auguro di avere una figlia come me!”. La frase rappresenta quello che provano queste persone, consapevoli di stare distruggendo se stessi e, di converso, le loro famiglie. La voragine autodistruttiva tende, come il buco nero della fisica, ad attirare nelle sue spire tutti coloro che si avvicinano.

Non mi sento di giudicare la comunità di San Patrignano che, a mio avviso, ha cercato di fare del suo meglio per aiutare tanti ragazzi, utilizzando anche metodi coercitivi e, in base a talune testimonianze, anche violenti. Credo veramente che il fine ultimo fosse il bene del paziente, anche se forse il narcisismo del fondatore e della struttura, che non poteva permettersi il fallimento, può aver travalicato certi limiti. Come studioso di queste materie, però, dissento dall’impostazione che è filtrata da questa comunità, molto conosciuta come modello di intervento in tutta Italia e ritengo il loro approccio medico e psicologico sbagliato.

Il paziente tossicodipendente, spesso, è il frutto avvelenato di dinamiche complesse – sociali e familiari. Occorre sviscerare questa matassa per aiutare il paziente a trovare la soluzione, che deve essere personale e autonoma. La coercizione può avvenire in alcuni casi, quando c’è il rischio per la vita e le capacità di comprendere del paziente sono alterate dalla sostanza. Ritengo, comunque, che la coercizione e l’imposizione di un modello di vita non possano prendere il sopravvento.

I risultati a volte sono discutibili in quanto, se si toglie la dipendenza dalla droga per sostituirla con la dipendenza psicologica da un guru o da una comunità-setta, non si è certo liberato il paziente. Voler imporre l’etica, come successe nel periodo del proibizionismo contro l’alcol negli Stati Uniti, è sbagliato e spesso anche fallimentare. Certamente, per tante famiglie è rassicurante delegare a una comunità per il timore inconscio di guardare dentro alle proprie dinamiche. Anche per la società è più facile ghettizzare e rinchiudere la sofferenza in luoghi deputati ad accoglierla, siano essi manicomi, comunità, residenze protette o prigioni. Più difficile a livello sociale è mettere in discussione l’impostazione culturale secondo la quale chi non si sente di appartenere viene emarginato.

Ho lavorato per diversi anni come supervisore in una comunità che accoglie pazienti tossicodipendenti, convenzionata con il servizio sanitario. Ritengo le comunità fondamentali, in certe fasi del percorso riabilitativo, ma credo che lo strumento comunità non debba trasformarsi in un totem protettivo, sotto le cui ali il paziente rimane asservito. La vita in comunità, in sintesi, è un mezzo e non il fine.

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