Un gigantesco “Morte agli arabi”, accompagnato da altri insulti razzisti, è comparso negli scorsi giorni sulla facciata esterna del Teddy Stadium di Gerusalemme. È stata questa la reazione de La Familia, il gruppo ultras del Beitar Gerusalemme noto per le sue posizioni anti-arabe e neosioniste, all’annuncio della cessione per 300 milioni di shekel (circa 77 milioni di euro) della metà delle quote societarie ad Hamad bin Khalifa Al Nahyan. Non un investitore qualunque, ma un membro della famiglia reale emiratina.

L’operazione ha portato una iniezione di capitale fresco – a cui ne seguiranno altre nei prossimi mesi – che permetterà al Beitar di potenziare il settore giovanile e tornare con forza sul mercato per migliorare la rosa, rendendola più competitiva. Ma soprattutto è stata il detonatore di un cambiamento per certi versi epocale, pensato anche per regalare al club una nuova narrativa. “La menorah del Beitar (la lampada a olio è il simbolo del club, ndr) è pronta ad emanare una nuova scintillante luce. Guardiamo insieme ad un futuro di concordia e fratellanza”, ha spiegato speranzoso Moshe Hogeg, il giovane presidente del Beitar, citando il Patto di Abramo, lo storico accordo tra Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Israele firmato qualche mese fa a Washington dentro il quale si inserisce anche questa operazione: “È l’incipit di un nuovo percorso di pace. Musulmani ed ebrei possono fare grandi cose insieme. Noi lo dimostreremo. E lo sport è il modo migliore per iniziare. La vera pace è quella tra le persone, non solo tra i leader “, ha aggiunto.

Parole importanti, coraggiose, ma sicuramente scomode in un mondo come quello del Beitar. La Familia, naturalmente, non ha gradito. Dopo la conferenza stampa di Dubai, sono piovute minacce e intimidazioni nei confronti del presidente giallonero, ma Moshe Hogeg non ha nessuna intenzione di fare marcia indietro: “Non ho paura”, ha assicurato. “Non permetterò che tali minacce rimangano impunite”, ha concluso il rampante imprenditore israeliano, molto conosciuto nel mondo delle criptovalute, supportato da un’ampia frangia di tifosi che negli scorsi giorni hanno presenziato all’allenamento della squadra per manifestare approvazione nei confronti dell’ingresso di bin Khalifa.

Ma episodi di questo tipo, dove razzismo, violenza e xenofobia si mescolano in un cocktail di odio verso gli arabi, non sono purtroppo una novità da queste parti. Negli anni il Beitar ha riempito le pagine di cronaca internazionale, sempre o quasi per colpa dei suoi tifosi più oltranzisti. La Familia, così come si fa chiamare il gruppo ultras più caldo, si è autoinvestito della missione di tutelare l’integrità del sionismo, soprattutto dalla ‘contaminazione’ araba. Sono considerati uno dei gruppi ultras più xenofobi, razzisti e violenti del mondo, ma loro ne vanno fieri: “Non siamo la squadra che ha vinto più campionati, né quella con reputazione migliore. La cosa che ci rende diversi è quella d’avere una tifoseria fanatica”.

Nel 2013, in occasione dell’esordio di due calciatori ceceni musulmani prelevati strategicamente dall’ambiguo presidente Arcadi Gaydamack, La Familia ha srotolato uno striscione piuttosto eloquente: “Per sempre puri”. Proprio come il titolo del docufilm in cui è ben illustrata la vicenda Kadiyev e Sadayev, costretto tra le altre cose a subire l’umiliazione di vedere i propri tifosi girarsi di schiena dopo una sua rete. E il clima si fa ancora più teso quando il Beitar Gerusalemme incontra il Bnei Sakhnin, la squadra araba più celebre e titolata del Paese. Il climax della tensione si è raggiunto nel 2004 quando il Bnei Sakhnin è diventata la prima formazione araba a conquistare la Coppa d’Israele, ottenendo il diritto a rappresentare il Paese in Coppa Uefa.

La reazione della Familia non si è fatta attendere: il giorno dopo sulle pagine dello Yediot Aharonot, uno dei quotidiani più popolari di Israele, i tifosi gialloneri hanno celebrato il “funerale del calcio israeliano”, dedicandogli persino un necrologio. Questo, però, è stato solo un semplice assaggio di quanto sarebbe avvenuto qualche mese più tardi, quando dopo un’umiliante sconfitta casalinga per 4-1 con il Bnei, La Familia ha diffuso un video in cui scorrevano i gol della sfida con in sottofondo una canzone malinconica, introdotto da un testo altrettanto raccapricciante: “Ieri è stata la giornata più dolorosa, vergognosa e imbarazzante nella storia del nostro club da quando è stato fondata nel 1936. Questo giorno sarà d’ora in poi un giorno di lutto”.

Ecco perché la nuova era del Beitar si preannuncia piena di ostacoli. Non sarà facile tenere a bada le pulsioni cavalcate dalla Familia, ma un alleato prezioso della società giallonera potrebbero essere proprio i tifosi. Gli altri, quelli moderati, che nelle ultime ore si sono dati appuntamento al centro d’allenamento per prendere le distanze dalla Familia, manifestando pubblicamente il loro sostegno al presidente Hogeg e la sua scelta di aprire agli investimenti arabi: “Non vogliamo che il Beitar sia conosciuto come una squadra razzista”, ha spiegato uno degli organizzatori in un’intervista al Times of Israel. La pensa così anche Oren Hasson, il presidente della federazione israeliana: “Il calcio può essere un formidabile ponte tra popoli e culture diverse. Questo ne è un esempio”.

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