“Tra marzo e ottobre ho perso il 95% del fatturato e fino a metà del 2021 non vedo possibilità di ripartire. Sto anticipando la cig ai miei 10 dipendenti ma sono stato rimborsato solo fino a luglio. Nel frattempo ho avuto il primo contributo a fondo perduto, ma i decreti Ristori mi escludono”. Emanuele Silvestri guida la Contest di Modena, piccola impresa che si occupa(va) di allestimento per i congressi medici. Dal primo lockdown si fanno in videocollegamento e addio stand delle aziende biomedicali e farmaceutiche. Finora è andato avanti con le sue risorse, ma ora “sono in riserva e non vedo la fine del tunnel”, ammette. La sua attività è tra quelle rimaste fuori dagli aiuti a fondo perduto – e pure dai rinvii delle scadenze fiscali – previsti dai decreti Ristori. Che individuano le attività da compensare perché danneggiate dalle nuove restrizioni anti contagio attraverso i codici Ateco, la classificazione adottata dall’Istat. Uno strumento che le associazioni imprenditoriali contestano perché il risultato è che si dimentica sempre qualcuno.
Il Ristori bis ha ripescato una ventina di codici, dagli autobus turistici alle scuole di danza fino a circoli Arci e produttori di fuochi d’artificio e il Ter, varato venerdì sera, ha inserito anche i negozi di scarpe, che erano esclusi per un cavillo. Ma nulla c’è per gli allestitori di fiere, i grossisti che distribuiscono prodotti alimentari e bevande a ristoranti, hotel e pub, i negozi di fiori affossati dallo stop a feste e cerimonie. Insieme a loro nel limbo ci sono le sartorie per abiti da sposa e abiti da cerimonia, le mense scolastiche e aziendali e i gestori delle “macchinette” di caffè e merendine, che risentono della didattica a distanza e dello smart working. Oltre ad agenti di commercio e liberi professionisti, che non hanno partecipato nemmeno aalla precedente tornata di aiuti a fondo perduto perché – Roberto Gualtieri dixit – “già beneficiano dell’indennità di 600 euro”.
Nell’allestimento fiere i codici Ateco comprendono solo il 14% delle aziende… – “Ci sono soci che mi chiamano in lacrime“, racconta al fattoquotidiano.it Sandro Stipa, presidente dell’associazione di categoria degli allestitori Asal Assoallestimenti, circa 2mila imprese per 2 miliardi di fatturato ante crisi e 120mila addetti. “Sono fermi da fine febbraio e in media dall’inizio della pandemia hanno perso il 98% del fatturato. Ma i codici Ateco inseriti negli allegati ai decreti Ristori comprendono solo il 14% delle aziende del comparto, che ricadono in una cinquantina di codici diversi”. In commissione al Senato è stato presentato un emendamento che aggiungerebbe altri 6 codici ai 4 previsti finora, ma per Stipa – e per tutti gli esclusi – è il metodo ad essere sbagliato: “Gli Ateco sono obsoleti, non ce n’è uno che tenga insieme tutte le imprese che fanno costruzione, montaggio e smontaggio chiavi in mano. Al tavolo con il ministero dello Sviluppo abbiamo chiesto di guardare alla perdita di fatturato – dovrebbe essere semplice visto che esiste la fatturazione elettronica e la procedura è gestita da Agenzia delle Entrate – e di includere tutte le aziende degli allestimenti fieristici. Come del resto era stato fatto per l’esenzione dalla prima rata Imu e il mini ristoro concesso dal Mibact”. Perché gli Ateco sono un intrico in cui è difficile orientarsi, soprattutto se chi scrive i provvedimenti “conosce poco il concetto di filiera”.
…e i fornitori non sono considerati – Filiera che comprende anche chi sta a monte: “I nostri fornitori di stampe, personalizzazioni grafiche e stoffe, che facevano il 70-80% del fatturato con noi, sono alla frutta e non stanno avendo aiuti”, racconta Luca Perreca della Allestimenti Benfenati di Settimo Milanese, 32 dipendenti tutti in cassa integrazione visto che “siamo fermi dal 23 di febbraio”. Lui è tra i pochi fortunati con il codice “giusto” per ricevere il contributo (in estate non l’ha preso perché il fatturato 2019 è stato superiore ai 5 milioni, tetto massimo previsto dal decreto Rilancio) ma fatica a gioire: “La cifra massima è 150mila euro, e ammesso che me li diano non bastano per gli stipendi di un mese. E ci sono tanti altri costi: macchinari, leasing, affitto dei capannoni”. Quindi? “Senza un ristoro importante, almeno il 20% del fatturato perso, non stiamo in piedi. Nella seconda metà dell’anno prossimo, quando si spera di ripartire, non potremo farlo perché per pagare i fornitori dovremmo tirar fuori soldi che non avremo, visto che a nostra volta veniamo pagati a 60, 90 o 120 giorni”.
Peggio va a Silvestri della Contest, che il contributo non lo vedrà e a fine ottobre ha visto cancellare “alle 18 del giorno prima”, per effetto del dpcm con le nuove misure anti contagio, la fiera con cui sperava di ripartire. “L’impresa prima del Covid era sana e finora ho retto, mentre tanti sono tecnicamente falliti. Ma senza un sostegno che compensi il 30% della perdita sono destinato a chiudere“.
I negozi di scarpe ripescati, i fioristi restano fuori (e buttano la merce) – I codici incriminati avevano beffato anche i negozi di calzature, per un motivo surreale: il loro Ateco comprende anche quelli che vendono scarpe per bambini, che (come durante il primo lockdown) possono rimanere aperti. Un paradosso che penalizzava attività che già di per sé hanno un problema peculiare: “Una scarpa non è una vite, è un prodotto moda che il negoziante compra circa otto mesi prima della stagione e se non viene venduto resta in magazzino e si svaluta“, ricorda Massimo Torti, segretario generale di Federmoda Italia-Confcommercio. Problema risolto con il Ristori ter, che li ha messi nella lista delle attività da indennizzare. Non così per i fioristi. Che, è vero, possono restare aperti, “ma senza eventi, feste e cerimonie chiuderci ci avrebbe fatto meno danno”, lamenta Rosario Alfino, presidente di Federfiori. “Per tenere aperto dobbiamo spendere per comprare merce che ogni due giorni buttiamo nella spazzatura perché non entra nessuno o quasi”. E dire che il loro Ateco era nella bozza del primo decreto Ristori: nella versione finale però è rimasto solo quello dei venditori di fiori ambulanti mentre il loro è stato cancellato. Come gli allestitori, credono che la strada giusta sia concedere a tutti un aiuto commisurato alla perdita di fatturato: “Almeno il 20%, o a gennaio chiudiamo”.
Niente per i grossisti che riforniscono i ristoranti – Tra gli esclusi senza spiegazione ci sono anche le circa 2mila imprese, per lo più pmi familiari con un totale di 6 miliardi di fatturato e 30mila dipendenti, che si distribuiscono a ristoratori e albergatori prodotti alimentari e bevande. “E i nostri associati anche anche un grosso problema di crediti incagliati perché a marzo i clienti hanno congelato i pagamenti mettendoli in difficoltà e costringendoli a chiedere prestiti“, spiega Dino Di Marino, direttore generale della Federazione italiana grossisti e distributori Horeca (Italgrob). “In estate la ristorazione è ripartita ma molti hanno dovuto comunque concedere moratorie e ora con le nuove restrizioni rischiano di non vedere i soldi”. Visto che “al 30 ottobre le perdite ammontano al 45% del fatturato medio dei primi dieci mesi e nei primi 15 giorni di novembre si arriva all’85-90%“, la richiesta è di fare piazza pulita degli Ateco e dare ristori in base ai ricavi persi sull’intero anno. Anche in questo caso non mancano gli emendamenti in commissione Finanze. Posto che ci siano i fondi necessari per accontentare tutti – ma i nuovi scostamenti di bilancio servono a quello – la strada migliore sembra però l’abbandono degli Ateco, per semplificare un meccanismo che mostra decisamente le corde.