La vicenda che contrappone in questi giorni Ungheria e Polonia al resto dell’Ue sul Recovery Fund – con i due paesi che non accettano il vincolo dei diritti civili per l’allocazione dei prestiti – dice molto sugli effetti dell’inclinazione europea a far proprie visioni tutte d’un pezzo e dogmatiche della realtà. Come la Slovenia, che si è accodata a Ungheria e Polonia, questi due paesi appartennero al blocco comunista.

Furono loro, nel 1956, a ribellarsi alla versione del socialismo impiantata in Europa dell’est nel dopoguerra, quella staliniana. Tanto gli studenti polacchi quanto quelli ungheresi, seguiti a ruota dalle rispettive classi operaie, pretesero una via al socialismo rispettosa delle diversità nazionali, ispirata dal corso seguito negli stessi anni proprio dalla Jugoslavia di cui la Slovenia faceva parte. Mentre in Polonia questo contrasto si risolse con un mutamento della classe dirigente (che comunque costò morti e feriti) in Ungheria i moti furono repressi da una sanguinosa invasione sovietica.

Proprio l’Urss aveva giustificato indirettamente quelle richieste di riforma condannando mesi prima, per bocca di Chruščëv, il culto della personalità del defunto Stalin (definito incompatibile con il materialismo socialista). L’invasione dell’Ungheria fu però spacciata, incoerentemente, come reazione a una “controrivoluzione fascista”. Molti tra i comunisti di tutto il mondo (compreso il Pci) si bevvero questa versione o finsero di farlo. Vero era che nell’insurrezione ungherese c’erano anche nostalgici del regime antisemita del maresciallo Horty che, prima e durante la guerra, si era alleato con Hitler e aveva sterminato gli ebrei; ma era falso che a questo si potesse ridurre una simile ribellione, appoggiata peraltro dal governo ungherese capeggiato dal comunista anti-stalinista e riformatore Imre Nagy, fucilato poi dai sovietici a rivoluzione repressa. La sua memoria era ancora viva quando, nel 1989, tanto l’Ungheria quanto la Polonia scesero in piazza contro regimi ormai decadenti e pesantemente indebitati con i governi della nascente Unione Europea, mettendo fine alla vicenda del socialismo reale.

Nella piazza degli Eroi di Budapest furono celebrati i funerali pubblici di Imre Nagy, fino ad allora proibiti. Tra i tanti che si alternarono sul palco ci fu anche un giovane leader particolarmente risentito, il cui nome era Viktor Orbán. Giunto al potere nell’epoca successiva Orbán avrebbe però smentito il sé stesso giovane: nel 2018 ha fatto rimuovere la statua di Imre Nagy eretta nel 1993 nella piazza dei Martiri, facendola sostituire da una copia del Monumento alle vittime del comunismo che si trovava in quel luogo, guarda caso, ai tempi del maresciallo Horthy e dell’alleanza col nazismo. La storia nazionale ungherese dovrebbe dunque espellere una parte di sé stessa; quella legata ai caduti comunisti, anche se hanno dato la vita per libertà di tutti gli ungheresi e degli europei di oggi.

Si disse nel 1989 (principalmente furono i comunisti a dirlo) che bisognava tenere d’occhio i rigurgiti autoritari, xenofobi e antisemiti che avrebbero rialzato la testa a quarant’anni dalla guerra. L’Europa preferì stappare lo spumante e girarsi dall’altra parte, come se rallegrarsi per una vittoria popolare dovesse impedire di conservare un minimo coscienza critica. L’assenza di quella coscienza era però forse funzionale a far passare come un bene collettivo il Trattato di Maastricht del 1992, che in trent’anni ha ridotto al collasso i sistemi sanitari europei e le tutele economiche utili in crisi come quella attuale, introducendo una serie di parametri (mai ratificati da voto popolare) senza i quali oggi neanche si spiegherebbero strumenti come il Recovery Fund, il Mes e tutte le deroghe a quei principi che, siatene certi, dovremo pagare con lacrime e sangue nei prossimi anni.

Come liberarsi del socialismo reale non avrebbe dovuto significare, per alcuni, rimpiangere i fascismi o cercare di riattualizzarli, così pensare a un’Europa nuova e libera dai parametri di Maastricht non significherebbe oggi rimpiangere il socialismo reale ma, proprio come nel 1989, pretendere un minimo di benessere contestando forme di potere incancrenito che si dipingono come altro da ciò che sono. Tanto nella narrazione pubblica della storia, quanto nella politica, visioni meno unilaterali e più equilibrate sarebbero insomma utili alla nostra salute – ed anche alle nostre tasche.

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