Caro Babbo Natale, scusa se ti disturbo, in questo periodo riceverai un sacco di posta. Del resto è un periodo in cui scriversi va molto, sarà che siamo tutti chiusi in casa. I medici scrivono lettere aperte al governo, la ministra scrive agli studenti, il premier risponde ai bambini preoccupati che tu non abbia l’autocertificazione per uscire. Quindi, lettera più lettera meno, eccomi qua.

Tu non mi conosci, non hai mai sentito parlare di me: sono un’ora asincrona. Non credo tu abbia sentito spesso questa parola, non mi pare che tu abbia per casa figli adolescenti, a meno che non si tenga conto degli elfi. Fanno didattica a distanza, loro? Tutti nella fabbrica di giocattoli? Perché in quel caso avranno a che fare con me, la più odiata, la più temuta, la più misteriosa. Intanto ho un nome bruttissimo. Asincrona. Sembra una cosa che i tamarri urlano in macchina, guidando con il gomito fuori dal finestrino quando vogliono fare gli splendidi. “Abbella!” sarebbe comunque meglio di asincrona, che sembra un po’ un insulto.

No, non è per via dell’alfa privativo, suona proprio male, ma pazienza il suono, è il concetto che fa un po’ ridere. Ci sono anche le mie colleghe, le ore sincrone, quelle di serie A, in cui i ragazzi sono connessi in contemporanea, che si lamentano, perché sembrano sedute spiritiche fatte di “mi sentite?” “mi vedete?” “se ci sei batti un colpo”. Colpi ne battono un po’ tutti, a volte di genio, più spesso di sonno. Ma le ore asincrone? Sono quelle in cui i docenti assegnano agli studenti lavori da svolgere non in sincrono, quindi da fare quando pare a loro.

Per evitare che stiano troppo al pc, che poi tanto se spengono il pc accendono il telefono, il tablet, la playstation, quando non fanno già queste cose contemporaneamente, ma non stiamo a sindacare. Sei tu che hai portato tutte quelle consolle in regalo, prenditi le tue responsabilità. La scuola è diventata così, un po’ aziendale, più che fare le cose bene, ci si affanna molto a fare in modo che sia visibile e tangibile il fatto che le cose sono state fatte, non importa come.

Un’ora asincrona, una come me, dura parecchio: dura il tempo di preparami e si sa che a prepararci noi ci mettiamo un mucchio di tempo, approntare materiale, selezionarlo, assegnarlo, modificarlo, personalizzarlo per i diversi alunni che hanno bisogni diversi. Siamo come i baci di quella canzone, una sola ne vale almeno tre. E una volta che hai assegnato un’attività asincrona? (Non chiamarla compito, eh, i compiti sono un’altra cosa, ci sono ancora, ma non usiamo questi termini desueti, siamo nella scuola della didattica digitale integrata, mica pizza e fichi).

Niente, una volta che gli studenti, anzi i partecipanti, ti hanno inviato i loro lavori arriva la notification, poi restituisci il feedback di altre attività asincrone scadute. Noi asincrone scadiamo, come lo yogurt. I ragazzi ormai parlano come consumati manager aziendali, al mattino aprono le call, dicono “ho due assignement da svolgere prima della deadline, non dicono manco più “vado a lezione” ma “avvio la riunione”. Una conversazione normale non esiste più, se c’è va programmata, ci si accorda nella chat, si programmano i test, naturalmente on line, quelli a multiple choice.

Ma va bene, eh, Babbo Natale, prima o poi la smetteremo anche di fare queste cose, le ore asincrone come me torneranno a essere ore in cui ci si guarda in faccia senza la webcam. Intanto, però, volevo chiederti il favore, se passi di qui per Natale, di portarci giusto un po’ di buon senso e un dizionario di italiano. In cambio, sotto l’albero, ti lascio il latte, i biscotti e un centinaio di cosi con le rotelle. Smontali e facci macchinine, o facci giocare le renne. Con affetto, l’ora asincrona.

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