VENEZIA – Debiti della campagna elettorale, segretari e qualche portaborse a cui salvare il posto, pressioni del Pd per una segreteria congiunta del centrosinistra. E poi il leader dell’opposizione che si trova – per scelta sua e astuzia dei leghisti – relegato in un gruppo Misto, con accanto due consiglieri regionali della “Lista Zaia” (Stefano Valdegamberi e Fabio Barbisan, presidente e vicepresidente) che il governatore gli ha messo alle costole. Per questo il professore Arturo Lorenzoni è stato contestato dai rappresentanti de “Il Veneto che Vogliamo”, il movimento di liste civiche che avrebbe dovuto costruire l’alternativa all’universo di Luca Zaia (vincitore con il 76 per cento). Peggio di così il centrosinistra non potrebbe essere messo dopo la batosta elettorale di settembre, visto che ha raggranellato solo 6 seggi con il Pd, uno con il “Veneto che Vogliamo” (Elena Ostanel), uno con Europa Verde (Cristina Guarda) e uno con lo sfidante Lorenzoni. A completare l’opposizione ci sono i Cinquestelle con la sola Erika Baldin. Ma al di là dei numeri è ciò che sta avvenendo nel piccolo arcipelago anti-Zaia, con implicazioni pratiche e politiche, che dimostra come lo strapotere leghista sia diventato debordante. E come la lunga marcia per costruire un’alternativa sia già cominciata ad handicap, con un leader (e portavoce delle minoranze) dimezzato.

La riprova si è avuta in una drammatica assemblea regionale online, organizzata a fine ottobre con la presenza di rappresentanti delle province e candidati di “Veneto che Vogliamo”. Ad Arturo Lorenzoni, che fu vicesindaco di Padova e che con il sindaco Sergio Giordani nel 2017 sconfisse Massimo Bitonci, è stato contestato di essere entrato nel gruppo Misto e di non aver costituito il gruppo “VcV” con la Ostanel, come sarebbe stato logico. “Come spieghiamo ai nostri che Arturo è in un gruppo assieme ai leghisti Valdegamberi e Barbisan?” gli hanno chiesto. Qualcuno gli ha perfino domandato se si sente parte del Movimento e se è disposto a contribuire con il 20% alle spese. In una parola, c’è maretta, che non è solo politica, ma anche pratica.

Lorenzoni ha ammesso che con lui al Misto si sarebbe potuto avere una persona in più nello staff, ma i due leghisti si sono già accaparrati un aiutante e così dovrà ricorrere a personale istituzionale. E anche il Pd rimane con due posti di collaboratori stipendiati che ballano. Non a caso il partito aveva insistito per volere Lorenzoni come esterno, per salvare i due che lavorano come precari da anni nel gruppo. Il Pd è infatti sceso da 9 a 6 consiglieri e gli effetti operativi sono anche questi. Il professore ha risposto spiegando che la campagna elettorale è stata onerosa e ha qualche debito da pagare. Inoltre, pur facendo parte del movimento, sente l’esigenza di equidistanza, per rappresentare tutta l’opposizione. Insomma, avrebbe più un ruolo di “coesione” tra forze diverse che non di costruttore di un nuovo soggetto politico.

Il destino degli sconfitti alle Regionali dal centrodestra in Veneto è sempre stato difficile e a corrente alternata. Non sono mai riusciti a diventare un punto di riferimento del centrosinistra. Accadde con il professore universitario Ettore Bentsik, ma in qualche modo anche con il filosofo Massimo Cacciari e con l’imprenditore Massimo Carraro, sfidanti di Giancarlo Galan. Non andò meglio a Giuseppe Bortolussi (poi deceduto) e ad Alessandra Moretti (che però ha continuato la carriera nel Pd), i primi due avversari di Zaia. Adesso Lorenzoni si trova di fronte a un “chiaro disappunto generale”, come ha sintetizzato il coordinamento regionale dei VcV (che farà un’assemblea) e al problema di un doppio vincolo per gli eletti, di mandato e di supporto economico. Di fronte alla corazzata leghista, che con 41 tra consiglieri e assessori può manovrare mezzo milione di euro di indennità di carica, di funzione e di note spese ogni mese, il centrosinistra (Pd compreso) ha le parvenze di una fragile barchetta politica.

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