di Gian Luca Atzori

Le analisi inglesi e americane sulla prima ondata hanno mostrato “deboli prove” a supporto della chiusura, mentre a tre settimane dalla riapertura autunnale delle scuole, recenti studi tedeschi in attesa di convalida evidenziano un calo del 27% dei contagi. Ad oggi il blocco della didattica ha coinvolto e continua a coinvolgere 1,5 miliardi di studenti di tutto il mondo, con un costo stimato di circa 15mila miliardi di dollari

Chiudere le scuole fa parte del vademecum per la buona gestione di ogni pandemia ed è stata una soluzione non-farmaceutica molta diffusa per tentare di contrastare il Covid-19. Si calcola infatti che circa il 90% degli studenti del pianeta ne sia stato affetto. Tuttavia, già da marzo, in seguito alla dichiarazione di “pandemia globale” da parte dell’Oms, alcuni esperti inglesi hanno iniziato a domandarsi pubblicamente se la chiusura delle scuole aiutasse a contrastare la diffusione del nuovo patogeno.

Un mese più tardi, una ricerca dell’University College London, pubblicata su The Lancet Child & Adolescent Health, ha analizzato 16 studi sulla chiusura delle scuole in Cina, Hong Kong e Singapore durante il coronavirus (Sars) nel 2003, rivelando “deboli prove” a supporto dell’efficacia di quest’azione nel controllo e nella gestione della pandemia.

I ricercatori concludono che la chiusura delle scuole può essere utile con virus a bassa trasmissibilità e un tasso di infezione infantile maggiore rispetto alla popolazione adulta. E’ questo il caso di alcuni virus influenzali o della varicella. Diverso è il discorso quando parliamo del Covid-19, che risulta essere ad alta trasmissibilità e si rivela più dannoso per gli adulti. Infatti, secondo i risultati pubblicati da Nature Medicine sull’analisi di 6 paesi – tra cui l’Italia – “i giovani sotto i 20 anni, oltre ad essere molto spesso asintomatici, hanno una suscettibilità all’infezione pari a circa la metà di chi ha più di 20 anni”. Un andamento confermato anche dai dati Iss, in cui la letalità del virus tra i 0-15 è molto inferiore rispetto a quella degli adulti, con 4 decessi sotto i 9 anni e zero vittime tra i 10 e i 19.

Tali deduzioni potrebbero considerare i giovani come più sicuri tra loro che in mezzo a gruppi adulti, fino a rendere vane le chiusure in contesti in cui gli adolescenti non vanno a scuola ma hanno la libertà di incontrarsi in altri luoghi meno controllati. Gli studi britannici mostrano infatti come la chiusura scolastica abbia ridotto la mortalità di appena il 2-4%, un dato infinitesimale rispetto all’efficacia di altre misure come, per esempio, l’isolamento degli infetti.

Allo stesso modo, altri due studi americani pubblicati a fine luglio hanno evidenziato un significativo calo dell’incidenza dei contagi e della mortalità tra marzo e maggio 2020.

Sulla scia di queste prime considerazioni e con l’arrivo di una seconda ondata, i ricercatori di tutta Europa hanno reimpugnato il tema con nuovi dati e un contesto differente, giungendo tuttavia a conclusioni non troppo discordanti: chiudere le scuole non necessariamente aiuta a contrastare il virus. Al contrario, secondo nuove analisi tedesche, a tre settimane dalla riapertura, i contagi sarebbero diminuiti del 27% rispetto al periodo di vacanze estive, con 0.55 casi in meno ogni 100mila abitanti.

La riduzione si concentra in particolare tra i giovani in età studentesca e i propri genitori, mentre è ininfluente sui gruppi a rischio sopra i 60 anni. I ricercatori Isphording, Lipfert e Pestel dell’Institute of Labor Economics e dell’Università di Bonn hanno analizzato i dati ufficiali sugli infetti da Covid in tutti i 401 circondari tedeschi durante un arco di 5 settimane, due precedenti e tre successive alla riapertura di fine estate, proponendo diverse ipotesi che provano a spiegare i risultati.

Innanzitutto, le scuole hanno riaperto in un clima di bassi contagi rispetto a marzo e applicando misure igieniche e di sicurezza molto più severe, dalla disinfezione alle mascherine, dal distanziamento al test del personale. Secondo, la riapertura ha incrementato le precauzioni, in quanto i positivi vengono rapidamente isolati e i genitori sono più previdenti a causa di maggiori costi socio-economici legati all’infezione di un membro della famiglia. Terzo, l’attenzione dei media fa presumere il contrario, ma secondo Isphording, nonostante “200 bambini in quarantena” facciano un buon titolo di giornale, sono anche la dimostrazione “che il nostro sistema di contenimento stia funzionando”.

Alla luce di simili risultati, si evince come in situazioni con bassi contagi al livello comunitario, utilizzare le norme anti-Covid, con test rapidi e isolamento sia sufficiente a tenere sotto controllo il virus. Ovviamente, sono tante le questioni da tenere in considerazione, a partire dalle differenze tra la Germania e il nostro paese. Lo studio sottolinea inoltre come i contagi nelle scuole siano sensibili alla capacità degli istituti di garantire prevenzione e controllo, alla crescita delle infezioni nella comunità, al cambio di stagione, al ritorno alla ventilazione negli ambienti chiusi, così come alla mobilità studentesca.

Per consentire la riapertura il governo italiano ha incrementato di centinaia di milioni i fondi per innovazione digitale, materiali sanitari, pulizia e funzionamento degli istituti; edilizia e recupero spazi volti a garantire il distanziamento; servizi per didattica a distanza e supporto ai soggetti più svantaggiati. I contagi nel mondo scolastico rappresentano l’11,2% di quelli nazionali, meno del loro effettivo peso (13,5%) sulla demografia del paese, appena l’1% delle scuole ha almeno un caso di Covid (500 su 53 mila) e il Comitato tecnico-scientifico avverte che la chiusura nazionale sarà necessaria solo qualora l’indice Rt si attesti a 1,5 punti per tre settimane. Tuttavia, a oggi le scuole primarie di intere regioni come la Campania sono ancora chiuse e 7 genitori su 10 temono la ripresa.

Considerati gli enormi costi della chiusura della scuola, stimati intorno ai 15mila miliardi di dollari nel mondo (senza considerare gli incalcolabili danni sociali, educativi e psicologici), è importante rivalutare il paradigma classico con il quale molte amministrazioni italiane, internazionali e la stessa Oms stanno decidendo di intervenire.

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