“Scusate se riparlo di me. Oggi ‘festeggio’ quattordici giorni consecutivi a letto, insieme all’ ospite ingrato che mi abita dentro”. Comincia così l’editoriale pubblicato su La Stampa dal direttore Massimo Giannini, ricoverato in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. “Gli ultimi cinque giorni li ho passati in terapia intensiva, collegato ai tubicini dell’ ossigeno, ai sensori dei parametri vitali, al saturimetro, con un accesso arterioso al braccio sinistro e un accesso venoso a quello destro”, scrive Giannini direttamente dalla Rianimazione, descrivendo la sua situazione clinica. “Il Covid è infido, è silente, ma fa il suo lavoro: non si ferma mai, si insinua negli interstizi polmonari, e ha un solo scopo, riprodursi, riprodursi, riprodursi”.

Il giornalista sceglie di raccontare la sua esperienza per far capire ai lettori, ancora una volta, che “la guerra c’è, se ne convincano i ‘panciafichisti di piazza e di tastiera’, e si combatte nei letti di ospedale e non nei talk show”. Una guerra che, spiega, si sta aggravando a vista d’occhio. “Quando sono entrato in questa terapia intensiva, cinque giorni fa, eravamo 16, per lo più ultrasessantenni. Oggi siamo 54, in prevalenza 50/55enni. A parte me, e un’ altra decina di più fortunati, sono tutti in condizioni assai gravi: sedati, intubati, pronati. Bisognerebbe vedere, per capire cosa significa tutto questo”.

I medici, gli anestesisti e gli infermieri lo sanno bene, aggiunge il direttore del quotidiano torinese: “Già ricominciano a fare i doppi turni perché sono in superlavoro, bardati come sappiamo dentro tute, guanti, maschere e occhiali. Non so come fanno. Ma lo fanno, con un sorriso amaro”. Poi cita le loro parole: “A marzo ci chiamavano eroi, oggi non ci si fila più nessuno. Si sono già dimenticati tutto…”. Ed è proprio ai mesi più duri della pandemia che guarda Giannini: “Le bare di Bergamo, i vecchi morenti e soli nelle Rsa, le foto simbolo di quei guerrieri in corsia stravolti dal sacrificio”. Eppure, spiega, “rieccoci qui, nella prima come nella seconda ondata, a litigare sulle colpe, a contestarci i ritardi. Come se la tragedia già vissuta non ci fosse servita”.

A suo parere, le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti: “Ripetiamo gli errori già fatti”, scrive, citando lo scontro tra governo e Regioni avvenuto nei giorni scorsi. “Dopo il disastro di marzo-aprile dovevamo fare 3.443 nuovi posti letto di terapia intensiva e 4.200 di sub-intensiva, ma ne abbiamo fatti solo 1.300: di chi è la colpa? Mancano all’ appello 1.600 ventilatori polmonari, dice il ministro Boccia: di chi è la colpa? Dovevamo assumere 81mila tra medici infermieri e operatori sanitari, ma al 9 ottobre ne risultano 33.857, tutti contratti a termine: di chi è la colpa?”. Stessa cosa per quanto riguarda “l’odissea dei tamponi al drive in”, i bambini bloccati a casa, le carenze nel “servizio domiciliare” per gli anziani (come la madre stessa del giornalista, “novantenne e malata oncologica”).

In conclusione, Giannini ribadisce la necessità di una nuova stretta anti-contagio: “Vorrei solo ricordare a tutti che anche la retorica del ‘non possiamo chiudere tutto’ cozza contro il principio di realtà, se la realtà dice che i contagi esplodono“. Posto che il lockdown ha un costo sociale troppo alto, chiarisce, “qualcosa in più di quanto abbiamo fatto con l’ ultimo Dpcm è doveroso“. Per farlo, però, serve che “governo, regioni, autorità sanitarie e scientifiche si muovano come un “corpo” unico e visibile, un dispositivo coerente e credibile di atti, norme, parole. Non lo stanno facendo”. Per questo non serve solo “la speranza”, conclude, ma “la volontà“.

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