Finalmente l’Italia investirà di più in ricerca, usando i finanziamenti del Recovery Fund. La notizia è magnifica e non si può non applaudire il ministro Gaetano Manfredi per aver accolto gli appelli della comunità scientifica, di cui è un autorevole esponente. La parola “ricerca”, però, definisce una gamma vastissima di attività volte a generare conoscenza. Si legge molto di brevetti, e l’impressione è che il fine della ricerca sia di produrre innovazione tecnologica.

Il Recovery Fund ha come finalità la sostenibilità ambientale e viene erogato per realizzare il Green New Deal. Il motivo è semplice: quello che abbiamo realizzato sino ad ora ha causato notevolissimi costi ambientali, con una intollerabile erosione del capitale naturale. Un’economia basata su questi presupposti porta a enormi costi economici dovuti a catastrofi naturali e al venir meno dei servizi ecosistemici. Chi paga questi costi? Non li paga chi ha tratto guadagno da queste attività, sono gli Stati a pagare.

Il nuovo patto verde dell’Unione Europea è “nuovo” proprio perché vuole uscire da un sistema “vecchio”, che costa più di quanto produce e che prevede una divisione dei costi palesemente truffaldina. L’economia che non tiene conto della natura è una truffa, perché mostra solo i benefici e nasconde i costi. Il “nuovo” sistema non può basarsi sui presupposti del “vecchio”.

La ricerca scientifica è indispensabile per disegnare un futuro diverso dal passato e, per rispondere alle richieste di innovazione del nuovo patto verde, deve dare centralità anche alla ricerca su biodiversità e funzionamento degli ecosistemi, per la salvaguardia della natura. La conoscenza del capitale naturale è una pre-condizione da soddisfare per operare in modo da non creare le situazioni negative ecologicamente, socialmente ed economicamente che ora stiamo affrontando e da cui vogliamo uscire.

Ogni innovazione proposta dovrà essere valutata in termini di sostenibilità ambientale, e dovranno essere incentivate proposte sostenibili che non guardino solo ai guadagni immediati ma considerino anche i costi nel medio e lungo termine. Se si pensa di produrre energia attraverso centrali nucleari, ad esempio, si deve ovviamente sviluppare la tecnologia relativa, ma si deve anche considerare dove si metteranno le scorie, come si smantelleranno le centrali una volta arrivate a fine vita, quali siano rischi di incidenti e gli effetti degli impianti sui territori circostanti. E questo non lo possono fare solo i fisici e gli ingegneri nucleari.

Queste valutazioni devono essere supportate anche da effettiva conoscenza del contesto ambientale e sociale in cui saranno collocate le attività proposte. Proprio come facciamo quando si sviluppa un farmaco: non si valutano solo i benefici immediati, si valutano anche gli effetti collaterali e si procede solo se i costi per la salute sono nettamente inferiori ai benefici.

Quello che facciamo per la nostra salute deve essere fatto anche per la salute degli ecosistemi dai quali dipendiamo: non ci possono essere umani sani in un ambiente malato. Dato che le ricerche su questi temi sono state considerate poco importanti (ed è per questo che abbiamo eroso il capitale naturale) sarà essenziale programmare la ricerca non solo in termini di brevetti, come si chiede da più parti con l’intento di produrre guadagni, ma anche in termini di conoscenza dei sistemi naturali, con l’intento di non generare costi non preventivati da chi ha scarse conoscenze ambientali.

Gli investimenti in questo senso sono stati irrisori fino ad ora, e i detentori della conoscenza su questi temi sono oramai in numero ridotto e hanno scarso peso nei comitati di esperti chiamati a decidere come investire in termini di ricerca. Sarebbe bene attenersi rigorosamente ai dettami del Green New Deal, che attribuiscono a biodiversità ed ecosistemi un’importanza centrale e trasversale a tutti i temi, visto che tutto quello che facciamo avviene in un teatro ambientale che ne risulta influenzato. Spesso gli ecologisti sono chiamati a fornire pareri tecnici che dovrebbero essere forniti da ecologi, e c’è una grande differenza tra ecologi ed ecologisti…

Resta ora da vedere quanti esperti di biodiversità ed ecosistemi saranno chiamati a disegnare le linee guida su come investire i finanziamenti in ricerca scientifica. Azzardo una previsione: molto pochi. Il che significa che i modelli del passato saranno reiterati per risolvere i problemi che essi stessi hanno creato.

Intendiamoci: non sto dicendo che non bisogna produrre brevetti. Tutta la ricerca del passato è preziosissima e va sostenuta. Ma ad essa va affiancata una ricerca sulla natura che, fino ad ora, è stata ritenuta più un freno allo sviluppo che un modo per non rovinare il pianeta che ci ospita e ci sostiene. Il freno allo sviluppo, invece, deriva proprio dai costi sociali ed economici causati da una visione miope di progresso.

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