Cinema

Anti-malarici autoctoni, multinazionali e vaccini inefficienti: il paradosso della malaria in Africa raccontato nel docu-film La Febbre

Il doc si apre con il classico tragico vero cartello esplicativo: “Nell’Africa sub-sahariana la malaria uccide un bimbo al minuto”. La malaria raccontata da tre protagonisti resistenti che dedicano la loro vita e il loro sapere a una alternativa locale e naturale per salvare la propria popolazione dal flagello della malattia

di Davide Turrini

Davide contro Golia. Africa contro resto del mondo. Produzione locale di un rimedio naturale antimalarico (l’artemisia) contro Fondazione Gates, Organizzazione mondiale della sanità, multinazionali del farmaco e i loro vaccini inefficienti (Coartem su tutti). A guardare La Febbre, il documentario della regista austriaca Katharina Weingartner, in anteprima italiana il 3 e il 4 ottobre al Festival Internazionale di Ferrara, si rimane umanamente ed eticamente sconvolti. Non c’è niente da fare. Nell’Africa orientale, tra Uganda e Kenya, prima la colonizzazione militare ed economica, poi la recente affermazione del neoliberismo finanziario extracontinentale, hanno distrutto salute, presente e futuro, autonomia sovrana di un popolo nel decidere il proprio destino. Weingartner almeno ce la racconta così, attraverso tre protagonisti resistenti che dedicano la loro vita e il loro sapere a una alternativa locale e naturale per salvare la propria popolazione dal flagello della malaria.

Il doc si apre con il classico tragico vero cartello esplicativo: “Nell’Africa sub-sahariana la malaria uccide un bimbo al minuto”. La regista poi, nelle note di regia, ha anche aggiunto “mentre il Covid-19 metteva il mondo in ginocchio, in Africa la malaria continuava a provocare più vittime di tutte le altre malattie e guerre del nostro pianeta messe insieme”. Insomma, il cratere di morte si amplia in maniera mostruosa a seconda del punto del globo in cui ti trovi. Solo che qui il caso è complesso perché il profitto del grande capitale occidentale è il principale imputato del disastro sanitario, ma è anche l’unico, ufficiale, paradossale argine al proliferare della malaria attraverso i vaccini.

La prima protagonista de La Febbre è una ragazza erborista che coltiva e promuove l’uso dell’artemisia. Lo sfondo è il classico contesto caldo umido attorno ai grandi laghi. Ma le acque stagnanti in cui alberga la larva della zanzara killer, così sostiene l’altro protagonista, un giovane scienziato virologo del luogo, sono state immensamente ampliate dagli inglesi colonizzatori quando impiantarono risaie ovunque (ma anche fabbriche di mattoni, poi dismesse, ora acquitrini). Insomma, cornuti ieri e mazziati oggi. Tanto che il ragazzo si chiede più volte e pone domande alla direzione della corporation kenyota dove lavora portando provette di larve da mattina a sera per analizzarle: perché non si è riusciti a produrre rimedi autoctoni? Perché dobbiamo essere “i facchini” delle multinazionali che anelano solo al profitto visto che il problema è nostro?.

La spiegazione del responsabile della corporation kenyota (un indiano) porta alla luce un meccanismo sinistro che rimarrà stampato nelle memoria dello spettatore: donatori privati (fondazione Gates, per fare un esempio) acquistano farmaci, poi l’Oms si esprime in una sorta di pre-qualificazione, così una multinazionale svizzera come la Novartis e il suo Coartem ottengono costi minori di vendita rispetto a qualunque possibile produttore locale, distribuendo il farmaco come iniziativa no-profit.

La febbre potrebbe finire qui, se non fosse che anche l’enorme fabbrica che produce zanzariere nei paraggi di Nairobi – la fondazione Gates ne acquista parecchie e le “dona” alla popolazione – è una multinazionale giapponese, la Sumitomo, che a sua volta produce negli Stati Uniti un’insetticida che viene acquistato per supportare le carenze delle zanzariere stesse (a loro volta composte da materiali tossici che creano parecchi disturbi agli operai africani che le lavorano). Così l’anelito autonomista kenyota/ugandese è quello più naif, complottista e antisistema possibile: una piantina. Tritata, sminuzzata, poi sciolta in acqua calda e bevuta ogni giorno. Del resto in un’altra multinazionale dei fiori che produce stelle di natale (sì, avete capito bene) da esportare in Europa su 1200 dipendenti i 500 che bevono artemesia naturale non si ammalano più di malaria. La giovane erborista, sempre in giro tra i villaggi ad aiutare bimbi e anziani, lo ricorda con grande semplicità: il Coartem è artemesia raffinata con un procedimento chimico industriale. Insomma: se ce la produciamo noi africani in natura perché ce la devono vendere le multinazionali straniere? Il quesito sconvolgente, politico, morale penzola per tutto il documentario e continuerà a penzolare per molto tempo nella mente degli spettatori.

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