Provo una simpatia innata e totale per Vanessa Incontrada. Ancor di più, l’ho sempre ritenuta l’immagine della bellezza che preferisco, dove corpo, voce, carattere, sorriso sono un tutt’uno. Mi è onestamente dispiaciuto per le critiche che ha dovuto subire per una sola taglia in più, qualcosa di semplicemente aberrante e insensato. Perciò ho sempre apprezzato il suo desiderio di contrastare questo giudizio incombente, che nel mondo dello spettacolo deve essere veramente feroce, verso chi ha chili in più, magari dovuti, ad esempio, a un parto (ma anche a motivi di qualsiasi altro genere.)

Tuttavia, non reputo che la copertina di Vanity Fair, in cui la Incontrada appare nuda, aiuti in qualche modo la causa di chi soffre di quella che in un pezzo che ancora ritengo molto attuale ho chiamato “grassofobia”. Quel moralismo assurdo che si scatena verso gli obesi, costretti a subire, oltre alla fatica di un corpo grasso, anche lo stigma di chi li ritiene senza volontà e su di loro rovescia l’ultima cosa di cui avrebbero bisogno, il disprezzo. La copertina di Vanity Fair non è politicamente scorretta, come vorrebbe far credere, anzi esattamente il contrario. E’ il trionfo della correttezza politica, ovvero del cosiddetto “body positivity“. La filosofia per cui bisogna accettarsi così come siamo, anche se imperfette, perché anche “imperfetto è bello”.

Questo modo di pensare imperversa ormai nei femminili e nelle riviste di moda. Il primo problema è che quasi sempre le persone messe in copertina, esattamente come la Incontrada, sono varianti imperfette di modelli perfetti. Ovvero, avendo solo piccole “imperfezioni”, come una taglia o forse mezza in più, di fatto non scalfiscono minimamente il modello che vorrebbero, a dir loro, sovvertire. Chi è veramente brutto, o veramente grasso, si sente ancor più offeso, ancor più emarginato.

Perché la società gli sta dicendo che sì, il concetto di “normalità” forse si è un po’ allargato, ma non tanto da includerlo. Come non lo include l’assurdo eufemismo di donna “curvy“, che offende proprio nella misura in cui non vuole chiamare le cose con il loro nome, ovvero corpo grasso, quasi questo aggettivo fosse innominabile. Ma quand’anche il patinato giornale milanese avesse messo in copertina una donna veramente brutta e veramente grassa, cosa che non farà mai, le cose non cambierebbero molto per i grassi. Perché anche la “body positivity” a tutti i costi, cioè l’idea che bisogna amarsi esattamente per come si è, ha comunque una valenza moralizzatrice. Non solo.

Un po’ come capita con la retorica della mamma imperfetta, per cui tutti i problemi delle madri si risolverebbero se solo la mamma accettasse la sua imperfezione, anche in questo caso si carica su chi è obeso la responsabilità della sua felicità e accettazione di un corpo che, magari, la fa soffrire (probabilmente) o che magari semplicemente non ama, dimenticando tra l’altro ogni responsabilità anche sociale, e perché no politica, sulla ‘epidemia’ dilagante della grassezza.

Insomma, non si può neanche spingere la correttezza politica fino a dire che ciò che bello non è lo è, e che quindi la persona brutta può essere felice nonostante la sua bruttezza. Così non si lascia alla donna la libera scelta di dire se ama il suo corpo o no, se vorrebbe cambiare, se vorrebbe accettare quel corpo oppure liberarsene.

Io penso che sia molto più utile il concetto di cui sono venuta a conoscenza da poco, e che trovo molto utile, di “body neutrality“, neutralità rispetto al corpo. Con il quale non si intende che le persone debbano diventare indifferenti al proprio corpo, ma che la società smetta di fare del corpo un criterio – e spesso l’unico. Questa filosofia implica che il corpo, e la sua bellezza/bruttezza, diventi un concetto del tutto secondario nello spazio pubblico, come nelle pubblicità, come nelle riviste.

Questa sarebbe la vera libertà, che ognuno viaggi con il proprio corpo senza doversi vergognare perché è troppo grosso oppure svergognare lo stesso perché non riesce ad amarlo in quanto grosso. Insomma, non abbiamo bisogno della Incontrada nuda. Non abbiamo bisogno di un corpo imperfetto, abbiamo bisogno di un corpo qualsiasi, sul quale non si punti continuamente l’attenzione. Perché dire che si accetta felicemente un corpo imperfetto significa comunque essere ossessionati dal corpo.

È questo che deve cambiare, e non solo certo nei giornali femminili ma in tutta la società, a favore di un’ossessione direi molto più interessante per i pensieri, i valori, le scelte morali, le idee delle persone, che le persone mettono pratica attraverso il corpo. In questo senso, forse i corpi, da soli, senza relazione con altri, non impiegati a fare qualcosa, non ripresi in un contesto quotidiano, concreto, reale, non andrebbero neanche messi in copertina.

Forse è molto più irreale, e quindi sbagliato, riprenderli in questo isolamento fasullo, oggettivante – che porta tutta l’attenzione sulla forma, invece che sui contenuti – che riprenderli magri. Se non cambia questa mentalità, che sia esposta una 40, 42, 44 o oltre, non cambia assolutamente nulla. Il “body shaming” non si combatte così, ma solo smettendo di isolare il corpo dal resto. Dicendo che non esistono i “body” ma solo le persone.

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