Chi sia il ministro Roberto Speranza lo abbiamo capito:

a) un bravo ministro che ha gestito al meglio possibile la crisi della pandemia;

b) un giovane politico consapevole di avere una promettente carriera davanti;

c) un bluffer che sulla sanità si trova incastrato tra gli errori della sinistra di governo e un futuro incerto e difficile e che dice di voler riformare ma non cambia niente, convinto che con i soldi si risolve tutto, e che per questo rinuncia (almeno a giudicare dalle sue proposte) a pestare i calli a chi è il vero responsabile dei disastri nella sanità;

d) un democratico – per modo di dire: mai visto un ministro aperto a tutti ma solo in televisione e chiuso come una porta blindata nei confronti di chi lo critica.

In sintesi: uno che per la politica rinuncia alla storia, cioè alla possibilità di voltare pagina, di aprire un nuovo corso riformatore, risolvendo una volta per tutte la crisi profonda del nostro Ssn. Un classico esempio di sinistra che nei confronti del cambiamento non riesce ad essere di sinistra come una vera sinistra.

Al ministro Speranza rivolgo quattro idee secche di riforma.

La prima cosa che riformerei è il postulato che in sanità muove tutto (tipo di governo, organizzazione, servizi, persino professioni e contratti): la “tutela“. Culturalmente ma anche scientificamente è un concetto vecchio di “difesa” nato già vecchio nella riforma di 40 anni fa, secondo il quale la sanità è difesa dalle malattie e la salute un diritto naturale dell’individuo, quando è ben altro.

Con la pandemia abbiamo capito che:

1) la difesa sanitaria non basta, bisogna certamente rinnovare i vecchi approcci di prevenzione, ma anche creare una nuova coscienza sociale e una cultura più che preventiva predittiva della salute;

2) oltre ai diritti alla salute è indispensabile sancire dei doveri alla salute che oggi nessuna norma prevede. Con la pandemia sfido chiunque a dire che la salute non sia un dovere individuale e sociale;

3) oltre all’individuo il vero, nuovo, protagonista della salute è la comunità (la salute non è solo un interesse della collettività). Oggi la salute dipende certo dai comportamenti individuali, ma anche dai comportamenti di una comunità.

Quindi la seconda cosa che farei è superare l’organizzazione territoriale della sanità (il territorio come “circoscrizione”, “distretto”, è un concetto di pura amministrazione delle persone) e al suo posto metterei la “comunità” che, al contrario, come soggetto politico non è puramente amministrabile ma è un soggetto co-decisore e quindi partecipante. Quindi non più Usl (unità sanitarie locali) ma Sssc, cioè “sistemi socio-sanitari di comunità”, non solo di servizi ma anche di “insiemi” di persone (cittadini e operatori), cioè gruppi eterogenei di persone, che con ruoli diversi partecipano alla costruzione della salute e al suo governo.

La terza cosa quindi che farei: cambierei l’attuale modello di governo della sanità. Da un governo delegato e paternalista, monocratico e tirannico sui cittadini e sugli operatori, si dovrebbe passare ad un governo della comunità basato sull’alleanza tra diritti e doveri, quindi dei malati e degli operatori.

Per me la forma di governo più adeguata non può che essere autenticamente federalista, ma il federalismo vero, non quello fasullo del titolo V e del regionalismo differenziato. Si tratta di distribuire i poteri non solo tra le istituzioni, ma tra istituzioni e comunità. Ma anche di riammettere i comuni esclusi nel ’92 dal governo della sanità. Comune e comunità sono la stessa cosa.

In questo ambito ridefinirei i rapporti tra Stato e Regioni, quindi supererei quell’obbrobrio della riforma del titolo V del 2001 e cancellerei le aziende (una vera disgrazia per la sanità) e al loro posto metterei i Csc, cioè i “consorzi per la salute di comunità”. Il consorzio giuridicamente è l’unione di più individui o enti, legati tra loro con doveri e diritti comuni e per un fine determinato, quindi espressione di un contratto sociale tra cittadini operatori e istituzioni: i suoi organi di gestione sono i più coerenti con il concetto di comunità.

La quarta cosa che farei è riformare il lavoro e le attuali forme di contrattazione. Le professioni che hanno rapporti di cura con i malati debbono essere definite giuridicamente quali “professioni impareggiabili” per cui non possono essere assimilate alle definizioni burocratiche del pubblico impiego. Non si può curare la gente con la burocrazia. Il lavoro è il capitale della sanità e quindi va pagato come tale.

Fino ad ora si è pagato il pennacchio, cioè la qualifica, e non le capacità di lavorare; da oggi in poi si tratta di pagare meglio e di più sulla base dei risultati di salute valutati in relazione alle complessità affrontate: cioè mettere il malato tra i criteri della retribuzione. Oggi il malato non è in nessun modo un riferimento retributivo.

Ps: le 4 proposte fatte vanno considerate quali discontinuità politiche principali, naturalmente per mettere in campo una riforma ci vuol molto di più. Rimando quindi al mio e-book La quarta riforma (versione gratuita) e al recente saggio La sfida politica in sanità nel dopo coronavirus pubblicato nell’ultimo numero della rivista diretta da F. Bertinotti e A. Gianni Alternative per il socialismo (aprile maggio giugno 2020 n. 57).

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