Mezzo secolo fa, nel 1970, usciva Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, docu-film premio Oscar nel ’71 (recentemente trasmesso da Rete4 a ore antelucane) sulla tre giorni (poi divenuti quattro) di uno dei festival che più d’ogni altro ha lasciato una traccia indelebile nella storia della musica e del costume giovanile. Il regista Michael Wadleigh, ex autista di pullman dell’Ohio, poi esponente del cinema underground americano, produsse circa 120 ore di girato prima, dopo e durante la manifestazione (fra i montatori un giovane Martin Scorsese.)

Dal 15 al 18 agosto ’69 accaddero cose incredibili che il film, rivisto oggi, ci ripropone senza giudizi di parte, stimolando un attacco di nostalgia in molti fra noi che avevamo creduto nei valori propugnati da quel mezzo milione di hippie e dai più grandi musicisti rock di tutti i tempi. A molti, forse, potrà sembrare demodé ricordare quel Music & Art Festival tenutosi nei pressi di Bethel, paesino rurale dello stato di New York (e non a Woodstock, a 70 chilometri di distanza, perché lì furono negati i permessi).

Io credo, invece, che, guardando oggi il film, si possono fare confronti sociologicamente interessanti fra la gioventù di allora e quella attuale. E anche sul modo di fare concerti: musica certamente non pulita come siamo abituati ad ascoltarla adesso, ma più ruvida, espressa con le pur potenti amplificazioni dell’ingegnere del suono Bill Haley che certo non erano all’altezza della situazione, senza considerare le frequenti assenze di tensione elettrica dei tre trasformatori da 2000 ampere.

Gli ideatori del concerto, quattro imprenditori, pensavano di fare un sacco di soldi e invece, visto che vendettero 186.000 biglietti e più di 300 mila giovani non paganti si riversarono al meeting, fu una débacle dal punto di vista economico. A Woodstock, pochi neri fra il pubblico, molti di più fra gli artisti (sarebbe interessante analizzarne il perché).

L’intelligenza del film sta nel mostrare non solo i musicisti che si esibiscono (per altro non nell’ordine reale in cui si presentarono e non tutti), ma i ragazzi che fanno il bagno nudi nel lago Filippini’s Pound; un signore che pulisce i cessi e ha un figlio lì, al concerto, e un altro in Vietnam che guida gli elicotteri; Max Yasgurm (che accettò di affittare agli organizzatori la sua tenuta per 75.000 dollari) mentre sale sul palco e balbetta: “Io sono un agricoltore e non so parlare a 20 persone figuriamoci a 500 mila…”, ma poi si dice felice di ospitare tutti quei ragazzi che si divertono. In paese, il regista intervista i pochi cittadini contrari alla manifestazione (ma solo per via dell’uso delle droghe e ce n’erano davvero tante…) e i molti, persino un poliziotto, che si dicono contenti di fornire spazi ai ragazzi nella propria terra.

E ancora anziani che preparano “il breakfast” agli hippy affamati (“Beh, non saranno squisitezze, ma facciamo quello che possiamo”) e bimbi che salgono sul palco e gironzolano fra le rockstar. Poi il fango, ovunque, per le forti piogge di una notte, e i ragazzi che raccolgono la spazzatura – ce ne sono montagne – in grandi sacchi (ma chi lo fa oggi ai concerti?).

Infine, gli artisti: Janis Joplin in notturna; Jimi Hendrix con il giubbotto a frange che suona, con la sua Fender Stratocaster (e rompe il micantino) ben 16 pezzi, fra cui il mitico The Star-Spangled Banner, inno nazionale Usa davanti a meno della metà degli spettatori (buona parte se n’era già andata non sapendo che il concerto era stato prorogato di un giorno). Il batterista dei Santana, Michael Shrieve, che aveva appena compiuto vent’anni, nel magistrale assolo da oltre 11 minuti di Soul Sacrifice. Non si pensi, però, che gli artisti si esibissero gratuitamente, in nome della pace e della solidarietà dei popoli oppressi: si fecero pagare eccome, Hendrix più di tutti.

“Poco importa se di lì a poco la saggistica adulta e approfondita sui riti giovanili rivelò che in realtà i tre giorni di Woodstock furono il banco di prova da parte delle organizzazioni criminali, Fbi compresa, per il lancio di una capillare opera di penetrazione dell’eroina nel pubblico dei festival pop” e se “con i 100 mila dollari pagati dalla Warner Bros per il film e con i diritti discografici dei futuri album (prima un triplo lp Woodstock: Music from the Orginal Soundtrack and More, poi un doppio lp Woodstock 2, poi nel 1994 un terzo album Woodstock Diary e un box-set della Atlantic di 4 cd, Woodstock: Three Days of Peace and Music, e nel 2009 un monumentale box set di 6 cd) quello fu il festival dell’amore sì, ma per il business”, scriveva nel 2009 Mauro Zambellini su FilmTV. Già, vero, ma quello che conta è stato il messaggio, lontano anni luce dagli odierni proclami.

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